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Tra speranze e delusioni quella "caccia al topo" che si è conclusa solo dopo 30 anni

CUNEO

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PIERCARLO BARALE - L’uomo che usciva dalla clinica palermitana, pullulante di carabinieri, vestito elegantemente – giaccone modello Putin, forse anch’esso proveniente da Loro Piana, prezzo 10.000 euro – era il pluriricercato e latitante da trent’anni, Matteo Messina Denaro. L’ultimo degli stragisti che avevano messo a ferro e fuoco l’Italia arrivando addirittura, secondo alcuni magistrati, ad imporre allo Stato richieste di liberazione di affiliati detenuti e di modifiche legislative, in particolare l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo. Fin dal 2002 era stato condannato all’ergastolo in contumacia, ritenuto responsabile di cinquanta omicidi. Taluni eseguiti personalmente, come lo strangolamento del figlio del pentito, il cui corpo venne sciolto nell’acido. A monito di tutti coloro che avessero pensato di collaborare con lo Stato. Altri sono stati delegati ed eseguiti puntualmente dagli incaricati.

Finora era riuscito a sfuggire a tutte le operazioni predisposte per la sua cattura, raggiungendo il primato di trent’anni da uccel di bosco. Viaggi, cure in cliniche anche all’estero, belle donne, belle auto, abiti firmati, collezioni di Rolex, cene lussuose: vita da nababbo. Totò Riina, il capo dei capi, era stato arrestato nel 1993, dopo essere sfuggito a parecchie operazioni concordate tra magistratura e carabinieri. Aveva lasciato il comando dell’organizzazione a Bernardo Provenzano, che aveva ricevuto da mano ignota i documenti che, per misteriose ragioni, non erano stati acquisiti da coloro che avevano proceduto all’arresto. Suscitò grande scalpore il fatto che il covo di Riina, catturato l’occupante, fosse stato abbandonato alle sollecite manine che hanno provveduto a ripulirlo, trovandovi i documenti scottanti, fonte di tutti i misteri del periodo stragista, compreso il contenuto della cassaforte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Bernardo Provenzano divenne così il capo dei capi e visse da uccel di bosco – una vita da mediano, non da Messina Denaro – fino al 2006, quando finì acchiappato. Matteo Messina Denaro divenne l’ultimo capo dei capi della mafia corleonese, che aveva predominato su altre famiglie dell’onorata società dai tempi di Totò Riina. L’imprendibile seppe, come buon amministratore delegato delle famiglie che lo sorreggevano, svolgere l’attività professionale di capo dei capi abbandonando la violenza, che era il metodo abituale introdotto da Totò Riina, ritenuto troppo pericoloso e visibile. Provvide a mettere a rendita l’enorme massa di denaro che confluiva su di lui grazie ad estorsioni, corruzioni, appalti, investendo in società dirette da teste di legno insospettabili, privilegiando in modo particolare – non per sua sensibilità, ma per acuta operazione economica – il green, l’energia elettrica verde: eolico e solare. Proseguì però la rete delle estorsioni spicciole a negozianti ed imprenditori, senza doversi dedicare in modo esclusivo a tale attività, delegata ad un numero certamente elevato di ragionieri e commercialisti.

La mafia acquisì inoltre in molte città italiane e delle riviere alberghi, ristoranti, pizzerie, sale da ballo, sempre con titolari incensurati. La sua salute venne tutelata ogni qualvolta vi furono necessità, con la frequentazione di cliniche di primo ordine, anche all’estero. Medici compiacenti lo curarono. L’aggravarsi di un tumore all’intestino lo ha portato ad una modifica del suo sistema di vita soltanto negli ultimi mesi. Nei quali frequentò la clinica privata palermitana per le cure necessarie, si pensa alla chemioterapia. Con la sua cattura, della quale troppi si attribuiscono la paternità o la compartecipazione, si sono trovati parecchi covi, dai quali potrebbero essere stati già precedentemente prelevati, da altre manine interessate, tutti i documenti che risalgono a Totò Riina, poi a Provenzano e poi a tutti gli anni di durata della caccia allo stesso attuale capo della mafia.

Queste manine che appaiono in occasione di Dalla Chiesa, di Totò Riina, delle uccisioni di Falcone e Borsellino, hanno provveduto anche a sottrarre e consegnare – a chi? – le famose agende dei due magistrati. La mafia ha sempre goduto di protezione dalla politica ed in particolare da elementi della stessa, che talvolta sono anche arrivati al Parlamento e al governo come portatori di particolari interessi. Sono i famosi misteri italiani, che iniziano dall’ultimo conflitto mondiale e dallo sbarco degli americani in Sicilia: i comandanti militari Usa nominarono i sindaci siciliani sulla base di un elenco compilato da un intreccio di delinquenti di primissimo piano della mafia nostra e statunitense, che suggerirono i nomi dei padrini e dei capi famiglia delle varie locali dell’isola. Ci fu perciò, fino al dopoguerra, una sorta di accreditamento della mafia presso i vincitori della guerra, con pesantissime ripercussioni per il futuro siciliano: banditismo, Salvatore Giuliano, sostegno dei latifondisti dalle pretese dei braccianti.

È di pessimo gusto la rivendicazione di essere partecipi, comunque, della cattura dell’ultimo superlatitante, rivendicato impudentemente da qualche forza politica e da qualche personaggio. Un minimo di onestà della nostra politica richiederebbe un silenzio per un trentennio di dimostrata incapacità di catturare Messina Denaro, che evidentemente ha utilizzato talpe piazzate in posti chiave, per vanificare tutti gli sforzi della magistratura e di carabinieri e polizia. Sotto certi profili, non ci fossero di mezzo stragi e omicidi efferati, ci sarebbe da sorridere per questa trentennale caccia al topo, nella quale il topo ha sempre vinto. Molti italiani – certamente troppi – si erano convinti che la mafia non sarebbe mai stata vinta, perché da sempre esisteva ed aveva sempre dimostrato la capacità di mutare, di scomparire temporaneamente, di attendere tempi lunghi, di essere stata sempre a conoscenza di ciò che il potere organizzava nei suoi confronti.

Falcone e Borsellino capovolsero, purtroppo al prezzo della loro vita, questa opinione ed affermarono che la mafia, come ogni fenomeno umano, aveva avuto un principio e avrebbe pure avuto una fine. La mafia d’oggi è diventata una piovra sull’economia, sugli appalti, sugli amministratori corrotti, manovrata da colletti bianchi spesso insospettabili o figli d’arte reduci da studi economici a Londra o tecnici in scuole d’economia, oppure addirittura avvocati, pronti a difendere chi li ha avviati allo studio. È una grande impresa, la maggiore del Paese, che fattura ogni anno un centinaio di miliardi – naturalmente esentasse – che confluiscono nei serbatoi di accumulo. Alcuni dei quali consentono sviluppi economici moltiplicativi, come il traffico di cocaina o di armi. Se qualcuno sgarra, non mancano le esecuzioni con incaprettamento e ritrovo dell’auto bruciata, oppure la tradizionale cementificazione nei pilastri di qualche edificio in costruzione come è avvenuto a qualche giornalista sgradito, o la lupara ancora sempre di moda.

Non so se si avrà la possibilità di mettere le mani – da parte dello Stato, prima delle consuete manine – sopra i documenti, che hanno avuto tanti traslochi e magari sulle agende di Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino, sempre che vengano ritrovate. Mi auguro, naturalmente, che tutto ciò che dalla morte di Dalla Chiesa è stato nascosto, con i passaggi successivi, riappaia in uno dei covi di Messina Denaro o venga spiegato ove possa trovarsi dal medesimo. È un augurio il mio, non una fiduciosa attesa, perché di fiducia da questi delinquenti non esiste neanche l’immagine. L’epoca della mafia tradizionale è finita. Per il futuro vedremo come si muoverà questo governo, sperando che non si attribuisca incautamente ed immeritatamente l’onore della cattura del super latitante Messina Denaro.

Piercarlo Barale

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