BRA
FIORELLA AVALLE NEMOLIS - Il Capodanno nella famiglia Nemolis non era una grande festa. A mezzanotte una fetta di panettone, un brindisi e poi tutti a nanna.
Da ragazzina sognavo grandi balli, abiti da sera fastosi, in saloni ampi con lampadari di cristallo che luccicavano e tappezzerie damascate. Insomma, una cosa da fiaba.
Negli anni sessanta, non c'erano castelli, però si parlava di festosi Capodanni. Con stelle filanti, cappellini, trombette e tanti, tanti coriandoli. E le dame vestite con abiti da gran sera, lunghi, tutti tulle, pizzi, lustrini su velluti damascati. Ma sopratutto l'oro e l'argento nei tessuti erano il colore del momento. Della festa. Tutto un luccichio, oltre a quello dei miei occhi nell'immaginarlo.
Sicché me ne andavo a letto col proposito: quando sarò grande farò un Capodanno da non dimenticare. E quel Capodanno arrivò. Prima di quanto me lo aspettassi.
Convolai a nozze con Marzio a settembre, e nel dicembre del 1965 ero una signora, giovane, anzi giovanissima, che con i suoi 18 anni si preparava per il suo sogno di sempre: un Capodanno da “grande”.
Si parlava tanto del locale da ballo Il Diamant, a Bra, unico nel suo genere.
Par ampiezza della sala, e per le orchestre prestigiose. Era un richiamo, venivano persino da Torino. Torino, allora per noi era la metropoli. Irraggiungibile. Alcune mie compagne frequentavano il Diamant, ma solo nel matinée. Ascoltavo i loro racconti sognante. Di chiedere il permesso a babbo Mario, non ci provavo neanche. Così mi accontentavo di ascoltarle. Come funzionasse la faccenda. “Signorina, balla?” E se il tipo non ti piaceva, si scuoteva il capino. “No, grazie!” E se invece c'era il tipetto giusto, giammai rispondere subito di sì. Farlo sospirare. Così mi spiegavano loro, che erano già donne di mondo.
In quel 1965, iniziai già il mese di novembre a pensare alla mise.
Consultai qualche giornale di moda, sì, Burda era il meglio. Sfogliai. Che scegliere? Senz'altro un abito da sera. Lungo, anzi lunghissimo. Anche con un pezzetto di strascico. Si, si. Bene. Colore? Tessuto? Fattura?
Decisi per una mise un po' originale.
Disegnai una gonna lunga di velluto di seta nera. Dritta davanti, scivolata sui fianchi, dietro partiva un piegone che si apriva a soffietto, e che cadeva a terra con un po' di strascico. Una cintura altissima partiva da sotto il seno e scemava dietro. La camicetta in seta laminata arancio, colletto alla coreana, molto attillata, tutta abbottonata davanti. I bottoni piccolissimi, foderati dello stesso tessuto. I polsini altissimi, accoglievano la manica un po' a sbuffo.
Passai dalla sarta, la stessa che mi avrebbe confezionato poi gli abiti premaman. Solo dopo qualche mese.
Chiesi quanto tessuto occorresse e acquistai il tessuto dalle sorelle Pastura. Tanto assortimento, un negozio fornitissimo, il migliore della città. Qualche prova dalla sarta. Soffrivo vedere tutto cosi imbastito, con quei brutti, grossolani, punti bianchi sul tessuto, così bello. Mi faceva tristezza. Sembravano stracci. E poi, la misurazione della manica, era terribile. Quel tubo di tessuto informe, lo infilava su per il braccio per attaccarlo al giro manica con gli spilli. Maledizione! Mi pungeva sempre. Con gli spilli in bocca, la signora, in ginocchio mentre controllava la lunghezza dell'orlo, vedeva la mia perplessità. Così mi rassicurava: “ Guardi, guardi, verrà bellissimo!”
A me pareva una schifezza. Finché arrivò il giorno dell'ultima prova. Infilai la camicetta e poi la gonna. Ero elegantissima!
Appagata, radiosa, uscii dalla sarta, scesi le scale di corsa e durante il tragitto a piedi, il freddo di dicembre mi pungeva il viso e la carta velina che avvolgeva gli abiti, si sollevava e, per quel po' di venticello, sbatteva facendo un suono. Piacevole. Un ritmo che accompagnava il mio passo. E intanto all'orrizzonte il sole rosso, rosso, in silenzio, calava sulla punta del Monviso innevato. Mi sorrideva il grande monte e prendeva parte alla mia gioia. Sì, caro Monviso, si è avverato il mio sogno di bimba. Andrò al veglione di Capodanno nella famosa sala Danze Diamant di Bra.
Arrivò la sera del 31. Nel pomeriggio in casa non feci quasi nulla. Stirare? Lavare? Ma neanche per sogno. Devo prepararmi per la gran serata.
Trucco: eye liner nero con le codine contornava vistosamente gli occhi. Il mascara passato e ripassato. Le ciglia: due spazzole, faticavo ad abbassarle. Tanto era il carico che dovevano sopportare. Un rossetto discreto, in tinta con la camicetta. Le sopracciglia, quasi inesistenti. Tutte depilate. Gli occhi risaltavano di più. Che orrore! Eppure Mina, la cantante urlatrice, le portava così. Infilate le scarpe di camoscio tacco dodici. Le calze velate. Sì, maledizione col tacco ne avevo già smagliata una. E Marzio: “Ma dai! Con la gonna lunga non si vede!” Eh, no! Neanche per sogno, dovevo cambiarle. Essere perfetta. E questo mi dava sicurezza. La borsettina di velluto, piccina, con un ridicolo manico ancora più piccino. Giusto la borsetta adatta alla Barbie. Ma usava! Cappotto, cappotto. Eccolo, quello nero con solo due grandi bottoni di lato, agganciati a un'asola di un semplice tondino di elastico. Molto originale. Una sorta di alamari un po' diversi. Si, mi piaceva.
Marzio era tutto un lamento, con l'abito grigio scuro, camicia, gemelli d'oro, regalo del suo babbo. E pure la cravatta. Che tortura per lui. Così casual, da sempre. In pratica era vestito a festa, come il giorno delle nozze.
Faceva un po' di broncio. “Marzio, scusa, io tutta elegante, chic, e tu? Come vorresti accompagnarmi, con i jeans e il maglione con il collo alto?” Lo rabbonii con un bel bacetto. “Attento, mi sciupi il trucco. Guarda mi hai sbavato il rossetto!” “Sa, sa, andiamo. Smettila di guardarti, stai benissimo!”
E salimmo in auto. La spider rossa fredda. Il riscaldamento era appena uno spiffero caldo. Rabbrividii. Non so se per il freddo che mi pungeva il seno, o se per l'emozione.
Davanti all'ingresso della sala c'erano già molte persone in coda. Lessi bene “Danze”, un' insegna luminosa grandissima orizzontale. E dall'altro lato “Diamant” un'altra insegna verticale. Dalla biglietteria, si scendeva fino alla sala. Una scala di circa sette metri. Ampissima, lunghissima, con la passatoia.
Marzio mi dette la mano e scesi le scale su tacchi a spillo 12, con lo strascico e le gambe che tremavano. Come andò la serata? Questa è un'altra storia.
Fiorella Avalle Nemolis