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Quel braccio raddrizzato frutta un risarcimento molto discutibile

CUNEO

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IN PUNTA DI PENNA/ La responsabilità medica

PIERCARLO BARALE - Alcune recentissime pronunce della Suprema Corte hanno toccato aspetti importanti della responsabilità medica, sia per quanto riguarda le strutture che gli operatori del settore. E' noto che i medici sono estremamente preoccupati per le conseguenze del loro operato, per la pervicacia e spesso irresponsabile ingordigia di pazienti e loro parenti o aventi causa, pur avendo essi operato con tempestività, diligenza e competenza.

E' così sorta, da qualche anno la c.d. 'medicina difensiva', costituita da un insieme di comportamenti, atti, interventi, verifiche - spesso superflue e costose - che i medici pongono in atto non tanto per assicurare ai pazienti una migliore o più efficace o tempestiva cura, ma per tutelarsi in caso di pretese infondate di risarcimenti.

Ricordo il caso dell'anziano scaraventato, appena deceduto in casa, dall'ingresso prospiciente la frequentatissima strada pubblica salernitana, dagli eredi a fini risarcitori - fatto di trent'anni fa. Ho avuto modo di operare professionalmente a tutela di un ospedale pubblico fatto oggetto della richiesta risarcitoria di un paziente sottoposto volontariamente ad un intervento per la rimozione di pallini di piombo. Anni prima, gli avevano reso quasi inutilizzabile un braccio.

Pur conscio di non poterne ripristinare la motilità, chiese di spostarne l'angolatura, così ritenendo di meglio poter aprire porte e svolgere operazioni di vita normale. L'intervento riuscì perfettamente. Il paziente, proveniente da altra Regione, anziché essere soddisfatto, citò in giudizio il primario e la struttura, sostenendo di non essere stato sufficientemente informato sull'esito dell'intervento, che - a suo dire - avrebbe dovuto ripristinare l'uso del braccio.

A nulla valsero le dichiarazioni degli operatori, che avevano a lungo discusso con il paziente circa l'insolita richiesta ed il lungo lasso di tempo trascorso dall'incidente di caccia. Una perizia richiesta dal Giudice penale scagionò gli operatori, in quanto l'intervento era stato ineccepibile. Il Tribunale ritenne la carenza di consenso informato, non supportato - a quei tempi - da un assenso scritto, come da anni succede. Stabilì un risarcimento, che la compagnia assicuratrice della struttura ritenne di corrispondere, evitando così successivi giudizi e perizie.

Il primario, che aveva accettato di procedere a tale intervento non destinato ad eliminare l'inabilità, era stato riconosciuto come valido e capace operatore, ma non aveva potuto provare il 'consenso informato'. Come spesso succede, la verità giudiziale è in netto contrasto con quella reale ed effettiva. I Giudici decidono sulla base della valutazione dei fatti, che è spesso discrezionale e talvolta errata.

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In materia di responsabilità civile medica della struttura, la Cassazione, Sezione III civile con la decisione n. 21090 del 19 ottobre 2015, ha stabilito che la struttura, a seguito di quello che è chiamato 'contratto di spedalità', deve erogare la propria prestazione con la massima diligenza e prudenza. Deve osservare tutte le normative in materia di tema di dotazione della struttura e delle organizzazioni di emergenza. In concreto, con i propri operatori deve tenere condotte adeguate, anche in caso di condizioni disperate dei pazienti. Ogni volta deve adottare le determinazioni più idonee a scongiurare l'impossibilità del salvataggio del leso.

Nel caso in esame, una Asl provinciale è stata condannata a risarcire la moglie di un paziente deceduto, perché non erano state poste in atto tutte le procedure e misure idonee a scongiurarne la morte. Nella decisione 28 luglio 2015 n. 15857 ancora la Sezione III distingue tra operazione chirurgica valutata come complessa ed il decorso operatorio. Quest'ultimo non può qualificarsi anch'esso complesso e, quindi, è necessario dare attuazione tempestiva e diligente ai protocolli. Fatta eccezione per i casi nei quali possano emergere alterazioni delle condizioni del paziente. In tal caso, si deve intervenire al di fuori dei protocolli consueti. Conclude la Suprema Corte, nel rilevare che la complessità dell'operazione non si traduce nella altrettanta complessità del decorso post-operatorio.

Con la stessa decisione 28 luglio 2015 n. 15857 viene messa a fuoco la differenza tra il nesso di causalità in tema di responsabilità civile - cioè il collegamento tra il fatto e la condotta tenuta dall'Asl e dai suoi operatori - e sotto il profilo della responsabilità penale. In materia civile sussiste il nesso di causalità se è preponderante l'evidenza o il più che probabile. Sotto il profilo penale sussiste sulla base del principio dell'accertamento della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio.

Vi è differenza tra il principio della evidenza o più che probabilità che i fatti abbiano avuto quello svolgimento, utilizzato per l'accertamento della responsabilità civile e quello, assai più garantista, per l'accertamento della responsabilità penale, che esclude ogni ragionevole dubbio per irrogare le pene.

Piercarlo Barale

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