Sono partita piena di illusioni, in un giorno qualunque di fine settembre. L’aria profumava già d’autunno e di partenze. Avevo deciso, o forse la vita aveva deciso per me: Parigi mi aspettava. Il cuore era gonfio, stretto tra la voglia di scoprire il mondo e il dolore muto dei saluti. Mia madre - la persona più cara che ho avuto, la donna a cui devo ogni gesto, ogni valore, ogni forza - cercava di trattenere le lacrime. Quegli occhi lucidi, che non volevano mostrarsi deboli davanti a me, sono l’immagine che ancora oggi porto nel cuore.
Accanto a lei, mio fratello. Il mio punto fermo. Un medico brillante, ma soprattutto un uomo di un’intelligenza e una sensibilità che pochi possono vantare. Lui non piangeva, non si spezzava. Si sforzava di essere forte, per lei, per me. Forse anche per papà, che avevamo perso troppo presto. Avevo solo otto anni allora, ma il vuoto lasciato da quell’assenza era ancora lì, silenzioso e ingombrante, seduto con noi in quel momento d’addio.
Ricordo le mani che stringevano i manici della valigia con troppa forza. Come se potessi trattenere qualcosa: il coraggio, le radici, o magari il tempo stesso. E poi l’aeroporto, quel non-luogo dove tutto cambia ma niente si ferma. Salendo sull’aereo non sapevo davvero cosa mi aspettava. Non avevo idea che ad aspettarmi ci fosse una città difficile, fredda, impassibile. Una città che non mi avrebbe fatto sconti.
La città che non ti abbraccia
Atterrai all’aeroporto Charles de Gaulle con una valigia pesante e una testa piena di sogni, ma bastarono poche ore per capire che quella città non si sarebbe piegata al mio entusiasmo. Non era l’Italia. Non era casa. E soprattutto, non sembrava avere alcuna intenzione di diventarlo.
Le distanze mi colpirono subito. Non solo quelle fisiche, che rendevano ogni spostamento un viaggio nella città infinita, ma soprattutto quelle umane. Parigi era bella, ma non accogliente. Ti guarda dall’alto, con quell’aria elegante e indifferente, come una donna che non ha bisogno di piacerti. Devi conquistarla tu, e lei, nel frattempo, resta lì a osservarti mentre inciampi.
Ero preparata sul piano linguistico — la laurea in lingue mi aveva dato un buon francese, fluente e sicuro — ma nessuna competenza può prepararti davvero al sentirsi fuori posto. Alle differenze culturali. Alla sensazione di essere invisibile, o peggio ancora, trasparente. I parigini non sorridevano per strada, non ti fermavano per chiederti come stavi. Nessuno offriva un caffè per rompere il ghiaccio. La cortesia era formale, distante, quasi ostile. Io, cresciuta in una cultura dove l’accoglienza passa per una carezza sulla spalla o una parola gentile, mi sentivo improvvisamente inadeguata.
Eppure, dentro di me, qualcosa resisteva. Una parte testarda, che si rifiutava di mollare. Anche se mi mancavano le voci familiari, i profumi della mia cucina, i piccoli riti italiani. Anche se la nostalgia mi prendeva allo stomaco nelle sere silenziose. Sapevo che indietro non potevo tornare. E forse, in fondo, non volevo davvero farlo.
All’arrivo a Charles de Gaulle, ad aspettarmi c’era lui: il mio futuro marito. Il viso conosciuto, l’abbraccio familiare, l’unico contatto umano che in quel momento mi sembrava casa. Ma la sensazione svanì in fretta, come una promessa non mantenuta. Quando arrivammo nella casa dove avrei dovuto cominciare la mia nuova vita, nessuno venne ad accogliermi. Nessuno si affacciò a salutarmi, a chiedermi come stavo.
Era come se la mia presenza fosse tollerata, non desiderata. Come se avessi osato troppo, entrando in una storia che non era la mia. La diffidenza si tagliava a fette. In particolare, la sua famiglia mi fece subito capire che non sarebbe stato semplice. La madre, in particolare, mi guardava come si guarda qualcosa che si teme ma non si riesce a evitare. Il terrore che potessi portarle via il “suo bambino” era più forte di qualsiasi tentativo di gentilezza. Nessun gesto ostile esplicito, ma quella freddezza mascherata da educazione rendeva l’aria pesante.
La casa era grande, bella, ma per me era un labirinto di tensioni. Io e Olivier vivevamo nel duplex al secondo piano, uno spazio tutto nostro solo in apparenza, perché lo si raggiungeva tramite una scala interna che lasciava la sensazione costante di essere osservati, controllati. Non c’era alcuna barriera reale tra il “loro” spazio e il “nostro”. E non c’era rispetto per la nostra intimità, per quella nuova vita che cercavamo di costruire insieme.
Io non ero solo una straniera venuta da un altro Paese. Ero anche, forse soprattutto, un’intrusa. E quel senso di non appartenenza non mi ha mai davvero abbandonata, nei primi anni. Vivevo sospesa, tra la necessità di adattarmi e il bisogno di restare me stessa. Non era facile, e nessuno sembrava volerlo rendere meno difficile
Un porto sicuro, il mio lavoro
Se la mia vita privata sembrava un terreno minato, quella professionale fu fin dall’inizio un porto sicuro. Ero stata trasferita dalla sede italiana alla filiale francese dell’azienda per un motivo preciso: aiutare il Direttore Generale, che era in Italia e che non parlava una parola di francese. Ero i suoi occhi nella sede francese, il suo braccio destro, la sua voce. Una posizione delicata, centrale, quasi scomoda per chi mi stava intorno.
Paradossalmente, in un Paese che faticava ad accogliermi, fu proprio il lavoro a darmi un’identità chiara. Sapevo cosa fare, e sapevo farlo bene. Quando veniva alla sede di Parigi, partecipavo a tutte le riunioni strategiche, traducevo in simultanea, ero il ponte tra due mondi . Grazie a quel ruolo, ero informata in anteprima su ogni decisione, ogni cambiamento, ogni scossone aziendale. Ero giovane, entusiasta, precisa. Ma proprio per questo, iniziò a emergere un’altra forma di ostilità: più sottile, più insidiosa.
Alcuni colleghi non vedevano di buon occhio quella ragazza arrivata dall’Italia e subito vicina ai vertici. Le gelosie erano palpabili, le dinamiche di potere delicate. Sentivo i sussurri, percepivo le distanze. Non ero parte del loro mondo, e in qualche modo, ero vista come una minaccia. Ma non mi fermai. Anzi, fu proprio quel clima a spingermi a dare ancora di più. Se non potevo piacere, allora almeno avrei fatto in modo di essere rispettata.
Il lavoro, in quegli anni, fu la mia ancora. Lì non mi sentivo sola. Mi dava ritmo, senso, valore. Era l’unico spazio dove la mia voce contava davvero. E mi ci aggrappai con tutte le forze, perché era l’unica cosa che nessuno potesse togliermi.
Quando l’amore se ne va
Non so esattamente quando l’amore ha cominciato a scivolare via. Non è stato un evento improvviso, ma una lenta discesa, una crepa che si allarga piano, fino a diventare voragine. Un giorno mi sono svegliata e mi sono accorta che non eravamo più noi. Che non c’era più “noi”. E che la donna che ero venuta a Parigi per amore, non esisteva più.
Il divorzio è arrivato come una scossa sorda, ma definitiva. Non ci furono grandi drammi, né scenate. Solo il silenzio di una decisione che non lasciava spazio a ripensamenti. E così, da un giorno all’altro, mi sono ritrovata sola. Non in senso astratto — sola davvero. In un paese che non era il mio. In una città che ancora non sentivo mia. Senza famiglia, senza sostegno, senza la rete invisibile che tiene insieme una persona quando tutto si spezza.
Ricordo le sere in cui rientravo a casa e il silenzio era assordante. Il dolore non aveva nome, non era solo tristezza: era disorientamento, senso di fallimento, vertigine e anche attacchi di panico. La sensazione di essermi smarrita. Ma non ho ceduto. Non potevo permettermelo. Non avevo nessuno a cui appoggiarmi, e quindi mi sono appoggiata a me stessa.
Il lavoro è diventato la mia terapia. Ogni mattina, indossavo la mia professionalità come un’armatura. Ogni giornata piena di riunioni, traduzioni, scadenze, era una distrazione e una cura. Mi ricostruivo silenziosamente, pezzo dopo pezzo, senza proclami. Con la disciplina di chi non ha scelta, e la dignità di chi non vuole far pena a nessuno.
La terapia si chiama lavoro
Il divorzio mi aveva lasciato vuota. Non ero più la stessa, ma nemmeno riuscivo a definire chi fossi diventata. Tutto ciò che pensavo fosse stabile, tutto ciò che pensavo fosse sicuro, si era sgretolato in un batter d’occhio. E la città che prima mi aveva accolto con freddezza, ora sembrava volerlo fare ancora di più. Ma proprio in quel caos, ho trovato una forma di rifugio.
Il lavoro. Non è mai stato solo un impegno professionale per me. È diventato una vera e propria terapia. Ogni giorno, la scrivania era il mio angolo sicuro. I progetti, le riunioni, le scadenze erano diventati il battito del mio cuore, il respiro che mi teneva in vita. Ogni volta che alzavo il telefono o entravo in una sala riunioni, non c’era spazio per il dolore. Il dolore si faceva più piccolo, più lontano, come se non fosse mai esistito.
In ufficio, non c’erano momenti per guardarmi indietro. Non c’era spazio per la tristezza, nemmeno per il dubbio. E questo, paradossalmente, mi ha permesso di crescere. La posizione che ricoprivo mi dava visibilità, ma anche potere. Le mie competenze linguistiche mi rendevano essenziale in un ambiente dove le parole, in un contesto internazionale, erano tutto. Il direttore generale mi considerava fondamentale, e io sentivo che in quel momento, forse per la prima volta, avevo davvero un valore.
Più passavano i mesi, più mi sentivo salda. Ma non era una stabilità pacifica. Era il tipo di stabilità che nasce dal bisogno di affermarsi, di non farsi piegare. Ogni volta che mi guardavo allo specchio, non ero solo una donna che si era rialzata. Ero una donna che aveva imparato a vivere in un altro modo. Più forte. Più determinata. Non avevo più tempo per pensare a quanto mi mancasse l’Italia, quanto mi mancassero le radici che avevo lasciato indietro. Mi ero trasformata in una persona che si adattava alla vita parigina. A volte, però, mi chiedevo: Chi sono veramente ora?
Parigi, la palestra della solitudine
Parigi, la città che non ti abbraccia, si è trasformata nella palestra della mia solitudine. In quei giorni in cui la mia vita sembrava spezzarsi, la città non era che uno scenario lontano e silenzioso, con le sue luci fredde e le strade senza volto. Dopo il divorzio, quando la casa che condividevo con Olivier divenne vuota, mi trovai a vivere con me stessa. Un buco profondo di solitudine mi avvolgeva, un vuoto che nessuno riusciva a colmare. Eppure, in fondo, sapevo che quella solitudine era la mia strada per guarire. Dovevo affrontarla, farla diventare una parte di me.
Quando la solitudine cominciava a pesarmi troppo, ho deciso di reagire. Volevo qualcosa che mi facesse sentire viva, che mi permettesse di rientrare in contatto con il mio corpo e la mia energia. Ho sempre amato ballare, ed è proprio così che ho scelto di iscrivermi a un corso di rock and roll. Quella decisione, presa quasi per caso, è stata l’inizio di un nuovo capitolo. Non solo il ballo, ma anche l’incontro con Philippe, una persona speciale che mi ha fatto vedere la vita sotto una luce diversa.
Philippe era un appassionato di ballo come me, e sin da subito mi ha colpito la sua enorme sensibilità, la sua gentilezza, il suo cuore grande. Mi ha fatto capitolare con la sua dolcezza e il suo modo di vivere la vita. Lì, al corso, abbiamo cominciato a conoscerci, ed è stato come se tutto il resto fosse scomparso. Eravamo due anime che si trovavano, che si capivano senza parole. La nostra connessione era naturale, spontanea. Lui mi avrebbe regalato la luna, se glielo avessi chiesto. Con lui, ho riscoperto il valore dell’amore, della complicità, del sostegno reciproco.
In quel periodo, grazie anche al sostegno di mio fratello, ho deciso di dedicarmi ancora di più agli altri. Sono entrata nel Lions Club, dove ho potuto fare del volontariato e aiutare chi era meno fortunato di me, nonostante la mia situazione. In quei giorni in cui Philippe riempiva la mia vita di gioia, sentivo che stavo ricominciando a vivere. La passione per il ballo, che avevo condiviso con mia madre, era diventata il mio rifugio, un luogo dove ritrovare me stessa.
Ma come sempre, la vita è arrivata a mettere alla prova la nostra felicità. Dopo 14 anni insieme, di cui 13 di matrimonio, Philippe è stato colpito dal cancro. La sua lotta è diventata anche la mia. Abbiamo affrontato insieme quattro lunghi anni, pieni di speranza e sofferenza. La sua malattia ha cambiato tutto, ma la mia presenza al suo fianco non è mai venuta meno. E poi, il 23 ottobre 2020, giorno del mio compleanno, quando il Covid impazzava, il mio Philippe se n'è andato. Quel giorno, mi è crollato il mondo addosso, ma ho dovuto fare i conti con la solitudine di nuovo.
Le feste di Natale e tutte le festività, che una volta erano momenti di celebrazione e di grande gioia, le ho trascorse da sola, confinata in casa. La solitudine che provavo era insostenibile. Non riuscivo a superare la sensazione di vuoto che lasciava l’assenza di Philippe. Mia madre e mio fratello non potevano venire da me a causa delle restrizioni sanitarie. La piccola Réglisse, la maltesina che avevamo scelto insieme, è stata l’unico conforto, con il suo amore incondizionato. Quel batuffolo bianco mi ha dato qualcosa su cui aggrapparmi, qualcosa di puro e semplice in mezzo al caos.
La sua morte, un anno fa, ha aggiunto altro dolore a un cuore già segnato. Un mese prima, anche mia madre se ne era andata. Ma in quei giorni difficili, ho cercato di trovare un senso anche al dolore. E così, nonostante tutto, ho continuato a dedicarmi agli altri e a cercare nuovi modi per riempire il vuoto. La vita è difficile, ma ho imparato a trovare piccole luci anche nelle tenebre.
Oltre le cicatrici, verso il futuro
La vita mi ha insegnato che ogni ferita, per quanto profonda, può trasformarsi in una cicatrice che racconta una storia di forza, di crescita e di resistenza. Ogni capitolo che ho vissuto è stato un passo verso la scoperta di me stessa, verso una consapevolezza che, nonostante le difficoltà, sono ancora qui. E sono più forte di prima.
L’esperienza di Parigi, di questa città che inizialmente mi ha accolto con diffidenza, è diventata la mia palestra, dove ho imparato a resistere, a ricominciare, a rialzarmi. Ho imparato che la solitudine non è un nemico da temere, ma una compagna che può insegnarci molto su chi siamo davvero. E poi, l’incontro con Philippe ha fatto entrare nella mia vita una luce che non avrei mai immaginato. Lui mi ha mostrato cosa vuol dire amare veramente, e quella lezione mi accompagnerà per sempre, anche se la vita ha deciso di portarmelo via troppo presto.
Oggi, guardo indietro senza rimpianti. Ogni sofferenza, ogni perdita, ogni battaglia è diventata parte di me, ma non definisce chi sono. Mi ha resa la persona che sono oggi: una donna che sa affrontare le difficoltà, che ha imparato a sorridere anche nei momenti più bui. E la solitudine? Non è più una condanna, ma un’opportunità per conoscermi meglio, per apprezzare la mia compagnia, per abbracciare chi sono diventata.
Ora, pur continuando a sentire la mancanza di Philippe e di chi ho perso lungo il cammino, guardo al futuro con speranza. Perché, come mi ha insegnato lui, anche nei momenti più oscuri c’è sempre una luce che brilla. E quella luce, forse, sono io. Io, che ho imparato a non arrendermi, che so cosa significa amare davvero, che credo ancora nella bellezza della vita, anche quando ci mette alla prova.
La mia storia non è solo una storia di sofferenza, ma anche di rinascita. È il racconto di una donna che ha affrontato le sfide con il cuore aperto, che ha trovato la forza di ricominciare ogni volta che tutto sembrava crollare. E anche quando non sapevo più come andare avanti, mi sono sempre ricordata di una cosa: il cammino non è mai finito. La vita, in fondo, è un viaggio. E io sono ancora qui, pronta a percorrerlo, passo dopo passo.
Orietta Manca Bouyer
(Foto: Orietta con Philippe e la mamma e nel suo ufficio)