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Le nostre Alpi: un destino umano

MONTAGNA

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ALDO ALESSANDRO MOLA - Divampa l'ennesimo scandalo: vaste aree alpine pressoché inaccessibili prese in affitto da furbastri di pianura per farsi erogare lucrosi fondi europei stanziati (senza controllo) a sostegno della pastorizia montana, garanzia di sanità del bestiame e di genuinità dei prodotti lattiero-caseari.

Una truffa perfetta, consumata nell'opaca “distrazione” di chi sapeva e di chi, anche in loco, poteva e doveva vigilare. Parafrasando il motto antico, si recintano di polemiche i pascoli ora che i fondi sono finiti nelle tasche giuste, con scorno dei margari veri, di chi ha resistito a tutte le traversie e si batte per difendere le Terre Alte.

La brutta storia ha per teatro le valli partigiane, quelle di Dante Livio Bianco, il comandante di “Giustizia e Libertà” che ebbe per motto “Aria, luce, pulizia”, le plaghe vissute da Umberto I e da Vittorio Emanuele III memori che il Padre della Patria, re Vittorio Emanuele II, ne aveva difeso l'italianità non per il gusto di andarci a caccia ma perché esse erano baluardo della civiltà alpina, sacra per chi dall'originaria Savoia era andato crescendo di secolo in secolo, un crinale e una valle dopo l'altra sino a dove le Marittime divengono Costa Azzurra. Le Alpi. Un “destino umano”, come decenni orsono sintetizzò Paul Guichonnet; una “civiltà” come ripeté Renzo Gandolfo, fondatore del Centro Studi Piemontesi.

Voci del passato remoto. Alpi, dunque: catena inespugnabile o reticolo di valichi? Le incisioni rupestri del Vallone delle Meraviglie insegnano che millenni orsono le Marittime erano transito di popoli legati non solo dai commerci ma anche da culti e da riti propiziatori, come la celebrazione del Solstizio d'Estate: passaggio dai fulmini della primavera ai dardi roventi dell'Estate, quando per poche settimane sui monti la vita scorreva più facile. Per scampare alle insidie del maltempo e dei predoni originariamente si procedeva più in alto possibile. Il viaggiatore aveva bisogno di orizzonti vasti, per orientarsi e vigilare. Coi secoli le quote del cammino si abbassarono. Lo Stato agevolò le comunicazioni ma al tempo stesso moltiplicò controlli e gabelle.

A vantaggio di chi? La svolta venne coi trafori di metà Ottocento. Essi richiesero investimenti giganteschi e risorse immense. Troppo costosi per il traffico di spalloni o col tiro di animali, incluse le diligenze, divennero remunerativi quando le strade ferrate consentirono il trasporto di grandi quantità di persone e di merci. Ne nacque un modo nuovo di percepire le Alpi. Da barriera difensiva o da ostacolo impervio divennero una risorsa. Il mutamento richiese decenni. Le ferrovie si sommarono alle carrozzabili di montagna, già frutto di ingegneria stradale tanto più immaginifica e audace rispetto a quella di pianura. Ne fu campione il savoiardo Luigi Federico Menabrea, che formò una schiera di ingegneri ferroviari (Germano Sommeiller, Sebastiano Grandis...) e per due difficili anni fu presidente del Consiglio dei ministri (1867-1869).

La battaglia per la domesticazione delle Alpi fu ingaggiata e vinta proprio dove la natura opponeva gli ostacoli maggiori: dalle Marittime e dalle Cozie alla valle di Susa e al Sempione... Quel processo è ripercorso da Antonio De Rossi in La costruzione delle Alpi (Donzelli), basata sulla ripartizione della catena alpina in due sole sezioni (occidentali e orientali) anziché nelle tre tradizionali, in linea con la Soiusa (Suddivisione orografica internazionale unificata del sistema alpino). Le Alpi vennero pensate e vissute in tempi e modi diversi e con risultati che solo sul lungo periodo risultarono evidenti e per molti aspetti irreversibili. La grande sfida, tuttora aperta, fu anzitutto una questione di acculturazione: perlustrazione dei luoghi, catalogazione sistematica di ogni loro aspetto e forma di vita, secondo i criteri della storia naturale e degli altri domini (vegetale, animale...).

Ne fu campione Quintino Sella, dalla formazione enciclopedica e versatile, uso a passare dallo studio delle rocce e dei cristalli a quello degli uomini, delle lingue, dei costumi, del diritto, dell'economia, da politico a tutto tondo. Le Alpi divennero un abito, una disciplina: terreno di gara tra visioni apparentemente contrastanti ma infine convergenti nell'obiettivo ultimo: l'uomo. Da un canto [manca “dall'altro canto”... rivedi l'intera frase] il Club Alpino Italiano delle origini, la severa scuola delle guide, il Corpo degli Alpini e le gigantesche opere di difesa immaginate e almeno in parte realizzate nella consapevolezza che da quelle valli per secoli erano passate scorrerie e invasioni e che lì, un giorno, sarebbe stato necessario battersi per gli interessi generali permanenti degli italiani.

Il “Bel Paese” dell'abate Antonio Stoppani era l'Italia che aveva condotto tre guerre per l'indipendenza ma ancora non era giunta a far coincidere i confini politici con quelli “naturali” e faceva i conti con vicini inquietanti: gli Asburgo a est, da secoli incuneati a sud delle Alpi con i vescovadi di Bressanone e di Trento e dal 1814 padroni dell'antica Repubblica di Venezia; a ovest la Francia. I capi di Stato Maggiore, dai napoletani Enrico Cosenz e Alberto Pollio al piemontese Cadorna, si passarono l'un l'altro lo studio delle difese alpine come il testimone di un'ideale staffetta collegata dalla certezza che la Nuova Italia avrebbe giocato la partita della vita non nel Mezzogiorno o nel Mediterraneo, ma sulle Alpi.

Anche la Chiesa raccolse quella sfida, ma in termini diversi, e tra Otto e Novecento promosse l'“alpinismo” con un respiro niente affatto inferiore a quello che, dopo Sella, ispirò il Giosue Carducci di Piemonte, di Cadore, di Mezzogiorno alpino, dell'Elegia del Monte Spluga, delle Esequie della Guida E(milio) R(ey)..., versi famosi, ripetuti mentalmente da generazioni di scalatori: “Spezzato il pugno che vibrò l'audace/picca tra ghiaccio e ghiaccio, il domatore/ de la montagna ne la bara giace...”. Nel vasto volume I Papi e lo sport curato da Stelitano, Dieguez e Bortolato per la Libreria Editrice Vaticana ricorrono centinaia di interventi per la promozione di “anime salde in salde membra” (motto di Pio X, il “papa sportivo”) e per la “ricostruzione morale dello sport” propugnata da Pio XII dopo decenni di visione neopagana e persino razzistica dell'agonismo, altra cosa dal magistero di Giovanni Paolo II, l'“atleta di Dio”.

Le Alpi come luogo dello spirito presero forma anche nella nuova coscienza del paesaggio modellato con la moltiplicazione di ville e di alberghi, il recupero e la tutela di villaggi, una nuova percezione della sacralità di un mondo che per sua natura si affidava alla coesione tra i popoli, lontano dalle gare che nei secoli ne avevano fatto ricorrentemente teatro di conflitti. La montagna come culla di libertà non è un'invenzione dell'Ottocento, la curvatura protonazionalistica di un ideale superiore. In piena età franco-napoleonica lo scrisse Dominique Destombes nell'Annuaire du Département de la Stura (1809) che si valse di de Saussure: “In queste alte valli non vi sono né signori né ricchi, né una una presenza frequente di stranieri; il paesano, non vedendo che uguali, dimentica che esistono persone più potenti; il suo animo diviene più nobile e si eleva; i servizi che rende alla società, l'ospitalità che offre non hanno nulla di servile o di mercenario”.

Gli alpigiani erano “naturalmente” uomini liberi. Lo sintetizzò Giolitti nelle Memorie della sua vita, con una frase cara a Valerio Zanone: “La nostra era insomma una famiglia di contadini-montanari che deve aver vissuto per secoli in quella vallata (la Maira) che ebbe sempre una fiera indole democratica”. Quando la valle venne concessa in feudo “i valligiani, raccoltisi ad Acceglio, deliberarono che il primo dei nuovi feudatari che mettesse piede nel paese fosse ammazzato. E nessuno tentò mai l'avventura (…) la valle così si salvò e mantenne la sua democrazia”.

Era la pianura, invece, a moltiplicare confini artificiosi, dogane, gabelle. Nel 1840 lo annotò l'inglese John Ruskin citato da Attilio Brilli nello spumeggiante Il Grande racconto del viaggio in Italia. Itinerari di ieri per i viaggiatori di oggi (il Mulino) in cui narrò il continuo assalto di una folta schiera di doganieri con i quali dovette fare i conti nel breve tratto fra Bologna e Parma: “Vediamo nell'ordine: porta di Bologna, uscita: passaporto e gabella. Ponte, mezzo miglio più avanti: pedaggio. Dogana, due miglia innanzi, lasciati gli stati pontifici: passaporto e gabella. Dogana, dopo un quarto di miglio, entrati nel Ducato di Modena, prima l'ufficiale della dogana, poi l'addetto al passaporto. Versato un tributo a entrambi. Porta di Modena: entrata: dogana, gabella, passaporto, idem. Porta di Modena, uscita: passaporto, gabella. Porta di Reggio: dogana, gabella, passaporto...” sino a Reggio (cambio di cavalli) e a Parma. “Dunque in totale sedici soste” con spreco di tempo e di danaro. “Nell'intero sistema - concluse - c'è un che di furtivo e di abietto”.

D'altronde è relativamente recente l'eliminazione delle cinte daziarie e di tante altre forme di vessazione diretta e indiretta sul trasporto e lo smercio dei più comuni beni di consumo. Prima di divenire guerra armata contro la dominazione straniera (che riguardava solo Lombardia e Triveneto), la base della lotta per l'indipendenza dell'Italia fu la Lega doganale, che mirò a semplificare e a rendere stabili i cambi tra le diverse monete emesse dai troppi stati e staterelli restaurati o instaurati con il Congresso di Vienna del 1815. Ripercorrere i due-tre secoli recenti attraverso i racconti di viaggio, come fa Brilli, i progetti più audaci per soggiogare le vette con i portenti dell'ingegneria ferroviaria (fu il caso dell'“assalto” al Monte Bianco e al Cervino, come ricorda De Rossi) ci pone dinnanzi alle contraddizioni di un'Europa ricca di intuizioni lungimiranti ma al tempo stesso miope e cocciuta, incapace di una visione veramente unitaria.

Egoismi e speculazioni affaristiche di corto respiro, tarparono le ali a realizzazioni di alto profilo. A restituire all'Italia centralità nel Mediterraneo non furono l'ideologia patriottica e la fuorviante invenzione dell'Austria come “nemico storico” (per decenni ripetuta nei sussidiari e nei manuali scolastici), ma l'apertura del Canale di Suez che abbreviò tempi e costi dei trasporti dall'Estremo Oriente e dalle Indie all'Europa centrale e alla Gran Bretagna e rese subito conveniente allestire la rete ferroviaria e riorganizzare i porti.

A quell'appuntamento, a metà Ottocento, l'Italia arrivò con ritardi storici dovuti alla somma di arretratezza (metà dell'intera rete ferroviaria era concentrata nel solo Piemonte) e di sottosviluppo (la drammatica carenza di scuole e di insegnanti, di ospedali, di acquedotti, raccolta delle acque reflue...). Il suo superamento iniziò solo con la prima legge sanitaria del regno ideata da Luigi Pagliani (nativo di Genola, in provincia di Cuneo) e varata dal governo Crispi-Zanardelli-Giolitti nel 1889-90: trent'anni dopo la proclamazione del regno, vent'anni dopo Porta Pia. E neppure quel governo, per tanti aspetti fattivo, si risolse ad affrontare il nodo più aggrovigliato: la riduzione delle Banche abilitate a emettere moneta, che rimanevano sei.

Quei ritardi vanno ricordati mentre l'Europa sta per compiere nuovi preoccupanti passi all'indietro: non solo la crisi dell'Eurozona per labilità di guida tecnica ma, addirittura, il ritorno dei venti di guerra nell'area orientale per pochezza politica. Gli inconcludenti incontri internazionali e sovrannazional (i G7, i vertici a due, tre o più capi di Stato e di governo: con la sempre più notata emarginazione della vociante Italia...) ci riportano al brindisi di Tilsit fra Napoleone e Alessandro I, in omaggio alla pace perpetua tra le due superpotenze che si accordarono per la spartizione dell'Europa continentale. Era l'8 luglio 1807. Quattro anni dopo i due imperi si avvinghiarono nel sanguinoso duello franco-russo che divorò l'intera Grande Armée e vide i russi avanzare dalle rovine di Mosca, appositamente incendiata affinché non servisse all'invasore, sino a Parigi. La lezione non fu appresa, come si vide nel luglio-agosto 1914, quando anche le Alpi tornarono teatro di guerra feroce (*).

Aldo A. Mola

(*) È sintomatico che le importanti opere di Brilli e di De Rossi abbiamo il loro termine ad quem nella Belle Epoque, dal cui tramonto, a ben vedere, l'Europa non si riprese più. Come I Papi e lo sport i due volumi sono tra i 50 candidati nella sezione scientifica (ai quali se ne aggiungono altri 110 per la divulgativa e il romanzo storico) del Premio Acqui Storia 2015, orchestrato dal Responsabile esecutivo Carlo Sburlati, anche quest'anno affollatissimo di grandi e piccoli editori e di autori di lungo corso e di esordienti (o quasi) e di proposte audaci come Decreti sporchi. La lobby del gioco d'azzardo e il delitto Matteotti di Riccardo Mandelli (Giorgio Pozzi ed.).

 

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