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La "diaspora" grillina potrebbe modificare il complicato quadro appena ultimato con Draghi

CUNEO

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CUNEO CRONACA - I nani all’attacco del gigante. Tale è parsa l’immagine dell’assurdo accanimento, da parte di nanette e nanetti, in occasione della votazione sulla fiducia del Senato e della Camera, conferita a larghissima maggioranza, nei confronti dell’ora premier Draghi. Taluni hanno anche vomitato insulti al limite del lecito, pur nel contesto della scriminante per l’esercizio libero dell’attività parlamentare. Altri, ripetendo una concordata tiritera, con inizio dal primo governo Conte fino ai giorni nostri, hanno ribadito la piena correttezza ed efficacia dell’operato loro e del loro partito o movimento, dimenticando che l’oggetto della seduta era ben altro.

L’inevitabile susseguirsi di pavoni, con sfoggio di piume multicolori, tanto caro ad alcuni legulei che siedono in Parlamento, ha avuto il suo corso. I numerosi dissidenti pentastellati hanno espresso giudizi negativi, ribadendo la loro ortodossia, pronti a seguire l’aspirante Che Guevara. Come l’ultimo giapponese rimasto nell’isola, teorizza da sempre una inutile rivoluzione. Dopo una lunga incubazione, in casa grillina è esplosa la diaspora. È uscito Di Battista, da sempre Bastian Contrario in rapporto ai dirigenti. Se ne attendeva solo più il passo decisivo. 

La pasionaria del sud, Barbara Lezzi, ha dovuto sopportare la realizzazione, in corso d’opera, della Tav; il contestato metanodotto, la prosecuzione della produzione dell’Ilva, l’alleanza grillina con il Pd, i ministri quasi tutti nordisti o tecnici. Da tempo il suo elettorato non la seguiva più. Tutte le sue battaglie erano quelle del movimento fin dall’origine: sono state perse. L’ortodosso Toninelli, durante il suo mandato ministeriale ha fatto continue piroette sulla Tav. 

È consolidata dottrina economica che, in caso di recessione, occorre incrementare le opere pubbliche, finanziando quelle in corso e dando inizio a nuove. Lo aveva fatto pure Mussolini, costruendo ferrovie, strade, fabbricati, bonificando aree da utilizzare con l’agricoltura. Ciò aveva dato occupazione e salario a tanti lavoratori, con lodi pervenute dall’intera Europa. Il peggio era già stato eseguito con il delitto Matteotti e via via con la gasatura di libici ed etiopi, fino ai massacri dei partigiani e alla disfatta. Un noto economista di qualche secolo fa ebbe a rilevare che, in caso di disoccupazione, lo Stato deve dare corso urgente ad opere pubbliche. Ove non ve ne fossero, sarebbe opportuno addirittura far spostare terreno senza utilità alcuna, pur di contrastare la povertà e corrispondere salari. Le conseguenze della disoccupazione non sono solo economiche, ma colpiscono la dignità dei lavoratori.

Come avvenne nella Rivoluzione francese e poi via via in quelle che si sono succedute nel mondo - in particolare in quella bolscevica - i rivoluzionari sono stati non le prime, ma le seconde vittime della rivoluzione stessa. I ghigliottinatori sono stati a loro volta ghigliottinati. Avevano tagliato teste di re, nobili, borghesi e proletari. Stalin ha provveduto a liquidare da par suo gli artefici della rivoluzione, qualificati come controrivoluzionari. L’ortodossia portata avanti dalle persone che avevano voluto abbattere gli zar è finita in monopolio a quelli che di volta in volta si sono affacciati sulla scena politica. Stalin ha fatto eliminare fisicamente o rinchiudere nei gulag 1500 controrivoluzionari, spesso incaricando dell’operazione letale coloro che aveva inserito nella lista compilata di sua mano. Questo feroce gioco è durato anni, nell’assoluto silenzio delle élite e del popolo russo, terrorizzati. Il vincitore di Stalingrado e della Guerra Mondiale si era spartito il mondo con le altre potenze vincitrici con gli accordi di Yalta. Portava con sé l’aura dell’eroe salvatore della Russia e vincitore della Germania. Instaurò subito un potere assoluto. Pare che, quando fu colpito da un ictus mortale, sia stata rinvenuta, sulla scrivania, la lista dei 1500 da eliminare: tutti i nominativi erano sbarrati. Era appena arrivato alla fine dell’operazione lunga, complessa e implacabile. Forse è soltanto una leggenda. Nessuno però ne toccò il cadavere. Rimase a terra fino a quando i gerarchi sopravvissuti non provvidero a chiamare un medico per dichiararne ufficialmente il decesso. Il popolo, in parte ignaro, in altra terrorizzato, in altra fedele alla sua fama, lo celebrò con la consueta solennità. Si dovette aspettare Michail Gorbačëv per veder cessare la Guerra fredda, il trionfo della democrazia, lo scioglimento dell’Unione Sovietica, la caduta del muro di Berlino. Ora Putin tende ad assomigliare sempre più al Grande Padre di tutte le Russie. Il suo ministro degli Esteri, vecchia volpe della diplomazia, minaccia addirittura la guerra in caso di nuove sanzioni da parte dell’Europa. La Russia è divenuta nuovamente inaffidabile. Putin, arrivato al potere, ha fatto in modo di rimanerci ad oltranza.

Lasciando le vicende delle rivoluzioni, osserviamo la diaspora pentastellata con curiosità ed anche preoccupazione, perché potrebbe modificare il complicato quadro appena ultimato, dopo l’intervento di Mattarella e la fiducia a Draghi. Il Premier darà corso al programma concordato col presidente ed accettato da tutti i partiti, eccezion fatta per Fratelli d’Italia, presieduta dalla "patriota" Meloni che approverà, però, provvedimenti patriottici.

Piercarlo Barale

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