BRA
La braidese Livia Ravinale, la guerriera, campionessa di motocross: prima pilota donna nazionale.
FIORELLA AVALLE NEMOLIS - C'era una volta, nell'America dei boschi a Bra (Cuneo), una bellissima pista da motocross. La costruì il braidese Giuseppe Mondino nel 1959. La prima gara con la categoria 250 si svolse il 14 maggio del 1961, e presto divenne tra le piste internazionali più prestigiose.
Incontro la braidese Livia Ravinale, prima pilota femminile in Italia, che si racconta. Livia è alta slanciata. E' donna “guerriera” nel motocross ma anche nei “salti” della vita. Non si è mai arresa.
E' naturale, spontanea, sprigiona disarmante femminilità. Che non mortifica per equipararsi ai piloti maschi. Che non sbiadisce neanche con uno sport duro, pericoloso come il motocross. E' la dimostrazione che le donne hanno talento, e coraggio da vendere.
“Livia, quando fu la tua prima volta al campo di motocross?"
"Il giorno di pasquetta del 1968, dietro invito del proprietario, il signor Giuseppe Mondino, cliente della drogheria “La Saluzzese” dei miei genitori in via Vittorio Emanuele a Bra. Subito rimasi affascinata dalla pista. Infatti, divenne famosa per competizioni ad alto livello".
“In cosa primeggiava?”
"Ho praticato diversi campi anche in Francia, ma la pista di Bra,era tra le più belle d'Europa. Oltre che pista naturale, il suo grande pregio era l'ampiezza del piazzale di partenza. Tanto che, dietro lo starter, permetteva lo schieramento di circa 25/30 piloti allineati. Il piazzale della partenza finiva in una curva, con il cosiddetto rampalot, una piccola discesa, che già selezionava i piloti. Infatti, appena otto o al massimo dieci lo superavano. Al fondo c'era una curva e subito iniziava il fatidico “rampum”, il salitone di Bra. Lo temevamo tutti, era lunghissimo e per giunta finiva a dente. Sulla sua sommità se, per controbilanciare, non ti buttavi col peso del corpo sul serbatoio della moto, era inevitabile il ribaltamento".
“Ma era così ripido?”
“Sì, molto. La prima volta, a metà della salita, sono caduta per la paura. Da quella volta ho imparato a intraprendere il “rampun” sciolta, senza paura”.
“Cosa ti piaceva di questo sport, diciamolo, pericoloso?”
“Insegna a vincere le paure. Non esiste corridore che non abbia paura. Si teme il momento della partenza, di essere pizzicato in mezzo, di affrontare le discese e le salite ripide, i salti. La paura è di cadere e farsi molto male”.
“Hai avuto un maestro?”
“Sì, devo molto al campione internazionale Emilio Ostorero, mi ha insegnato i trucchi di questo sport. E' stato un grande: semplice, umile. Il motocross, in quegli anni, era considerato la cenerentola dello sport motociclistico. Anche gli ingaggi, rispetto ai piloti su pista, non erano ben pagati. Non ci davamo arie. Ci piaceva stare in mezzo alla gente che faceva il tifo per noi. Ora è tutto cambiato”.
“Per quanto tempo hai gareggiato?”
“Dal 1969 fino al 1974, fino alla nascita di mia figlia"
“I segreti di questo sport?”
“Innanzitutto l'amore per la moto, fuori strada. Mettersi in gioco su terreni impervi, dai buchi, ai sassi, ai rami, e il fango quando piove. E soprattutto i salti, sia in salita che in discesa”.
“Qual'è il più difficile?”
“In discesa. Perché in salita apri gas e poi plani. In discesa devi scendere bene, con la ruota posteriore per mantenere l'equilibrio e poi planare con quella anteriore. Quando arrivi da un rettilineo non vedi più nulla, di colpo, ti trovi ad affrontare la discesa. Era chiamata “trampolino” perché era come saltare dall'altezza di un trampolino. Ma se sei un corpo unico con la moto fa tutto lei”.
“Proprio tutto la moto...non credo!”
Livia, che cammina sui ricordi di ragazza 17enne, entusiasta e anche un po' di spericolata, ha raggiunto il successo senza neanche accorgersene. Con naturalezza e col divertimento, la vera molla per gettarsi su e giù da questi “trampolini” naturali nei boschi.
“Sei stata la prima donna pilota di motocross in Italia”
“Sì, è vero. Ma per correttezza nel Lazio correva anche una ragazza di nome Paola Dolci. Abbiamo iniziato insieme. A me è sempre stato detto di essere stata la prima in assoluto. Non mi sono mai resa conto di avere aperto le porte ai campionati femminili.”
“Su che moto correvi?”
“Su un motore tedesco Sachs, elaborato dal meccanico Sperafico di Biella”.
“Quanti corridori teneva il campo di Bra?”
“Circa 25 corridori, come partenza a norma. A differenza di altri: come Ponzone Trivero, Mottarone di Armeno sul lago di Aorta ecc..dove non c'era sufficiente spazio per gareggiare. Così con le gare ufficiali c'era una prima selezione, e rimanevano in gara i più veloci.
“Le persone cosa pensavano di te, “donna e motori?”
"Ero criticatissima. Per la promiscuità in un ambiente solo maschile. Ma ho sempre avuto appoggio dai miei genitori. Nel 1970 nacque l'equipe femminile, eravamo in tre, la braidese Giuditta Giuliano, l'albese Ivana Cattaneo ed io.”
“Siamo nei mitici anni '70, del cambiamento, della ribellione...”
“Si, noi, con Giuditta eravamo i ragazzi seduti su gradini della pasticceria Arpino. Più avanti eravamo quelli dello Spigolo, un noto bar nei pressi dei giardini della stazione. Ci radunavamo per andare a fare le curve in moto a La Morra o a Pocapaglia. Noi eravamo “le zavorrine”, cioè sedute dietro".
“Ti piaceva fare la zavorrina?”
“No, a me piaceva guidare.”
“Una difficoltà per voi donne nel gareggiare coi maschi?”
“La resistenza alla fatica. Venti minuti di sobbalzi, la durata della manche, era dura. Oltre alla tensione della competizione, il pensiero che hai l'altro dietro che ti “morde” la ruota, come si dice in gergo.
“Riuscivi a pensare di essere sola sulla pista?”
“Sì, acceleravo e mi dicevo: “Io vado. Cado e mi rialzo, sempre da sola”. Non ho mai permesso a nessuno di aiutarmi e di toccare la mia moto. E così è stato nella vita. Il motocross mi ha resa guerriera. Ho preso tante botte col motocross, e anche tante dalla vita, ma io combatto sempre. E mi rialzo. Chi mi aiutava era la mia moto. Adesso ho la mia famiglia".
Fiorella Avalle Nemolis