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Giusta l'assoluzione del figlio che ha ucciso il padre violento per difendere madre e fratelli

CUNEO

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PIERCARLO BARALE - Talvolta la Giustizia applica il detto latino summum ius, summa iniuria, privilegiando l’esteriorità documentale sul diritto sostanziale. I codici non possono indicare in dettaglio le innumerevoli sfaccettature che le vicende umane possono assumere. Spetta ai giudici penali valutare i fatti, dopo averli accertati. La condanna dev’essere irrogata quando vi è assoluta certezza, priva di ogni ragionevole dubbio, dell’esecuzione dell’azione da parte dell’imputato. Dev’essere certa la dinamica, il fatto sotto il profilo attuale, concreto. Si deve quindi accertare il nesso di causalità tra il fatto e la condotta dell’imputato. Pur sussistendo l’oggettività del fatto, se manca la certezza sul nesso di causalità tra il comportamento dell’imputato ed il fatto, si deve prosciogliere per non aver commesso il fatto. Se vi è certezza sul fatto ed il collegamento con il ritenuto autore appare addebitabile senza ombra di dubbio, si deve condannare. Circa l’entità della pena da irrogare, spetta al giudice l’inquadramento della vicenda nello schema codicistico. Si deve verificare la sussistenza di aggravanti e attenuanti. Su tale bilanciamento ha grande importanza l’aspetto personale del reo, che porta a valutare la sua capacità a delinquere: precedenti, modalità esecutive, esperienze di vita, lavoro, familiari, inserimento nella società.

Il giudice penale monocratico, come quello collegiale, non ha spazio per esprimere giudizi ed irrogare condanne, oppure assolvere distanziandosi dalle norme codicistiche. Ampio spazio ha negli Usa la giuria popolare, alla quale sola spetta la scelta tra l’assoluzione o la condanna per tutti i reati importanti, affidati dal popolo americano. Al giudice togato spetterà la sola quantificazione della pena, restando però nello spazio tra il minimo ed il massimo edittale. Le pene sono assai più severe delle nostre e vengono effettivamente subite, diversamente che da noi, dove fino a quattro anni di pena non si entra in carcere. Difficilmente negli Usa si possono ottenere sconti o differimenti o sostituzioni pecuniarie. Da noi, per i reati più gravi, i giudizi spettano in primo grado alla Corte d’Assise presso il tribunale ed alla Corte d’Assise d’appello in grado di appello. Tali giurie giudicano sul fatto ed irrogano anche la pena. Sono composte da un presidente e da un giudice a latere togati, mentre la maggioranza del collegio è formato da giudici popolari estratti a sorte per l’intera sessione di processi.

La Corte d’Assise torinese ha assolto perché il fatto non costituisce reato il ragazzo parricida tratto a giudizio con richiesta di quindici anni di carcere dalla procura della Repubblica. Si trattava del minimo della pena edittale. Il rappresentante dell’accusa, commosso, pienamente conscio dell’obbligatorietà dell’azione a cui era tenuto, ha evidenziato come, nella situazione accertata, il comportamento del ragazzo, studioso, diligente, onesto, che aveva ucciso il padre ripetutamente violento nei confronti della madre e dei fratelli minori, non era stato quello di un parricida come indicato dal Codice penale. Non poteva però chiederne il proscioglimento, stante l’evidenza dei fatti e la volontarietà dell’azione. Spettava quindi alla Corte d’Assise la valutazione globale dei fatti, l’accertamento delle cause, motivi, giustificazioni. La giuria poteva e doveva valutare anche il lato umano che solo il popolo sovrano, dalla stessa rappresentato con i giurati eletti a sorte, può valutare. Con coraggio e soprattutto obiettività hanno scelto l’opposto del detto precedentemente citato. Che valore avrebbe avuto, per la società, tenere in carcere per 15 anni un bravo ragazzo che aveva difeso la mamma ed i fratelli minori dalle continue gravi minacce e violenze di un padre snaturato? Leggendo la motivazione della sentenza, verremo a conoscenza che probabilmente i fatti sono stati considerati con riferimento alla legittima difesa dei familiari, ripetutamente posti in grave pericolo e comunque soggiogati dalle violenze del defunto.

Alcuni anni dopo l’inizio dell’attività forense - giurassico - avevo udito da un collega la narrazione di una sorta di leggenda metropolitana che, in seguito, mi era venuta rammentata più volte. In una piccola città allora sede di tribunale, un noto macellaio aveva come clienti abituali i residenti nella zona degli uffici giudiziari, giudici e procuratori compresi, le cui famiglie frequentavano tale negozio per la squisitezza della carne, la disponibilità, professionalità e simpatia del titolare. La moglie del predetto svolgeva l’attività di cassiera e collaboratrice. A fine mattinata venne uccisa dal marito nel negozio, in assenza di testimoni. Il pavimento era stato lavato dalla vittima e il marito stava disossando e sezionando grossi pezzi di carne, maneggiando un classico grosso coltello molto affilato ed appuntito. L’intervento immediato dei soccorsi ed anche della stessa polizia giudiziaria dal tribunale poté soltanto accertare la morte della donna per dissanguamento.

Gli inquirenti acquisirono nell’immediatezza - non c’era ancora bisogno, allora, della presenza del difensore - la piena confessione del marito. Affermò che la moglie era scivolata sul pavimento appena lavato da lei stessa ed gli era caduta addosso, proprio sul coltello che egli maneggiava, volendo aggrapparsi per non scivolare all’indietro. Era stranoto nella cittadina che la defunta, da decenni, vessava il marito, lo maltrattava ed umiliava di fronte ai clienti. Per tutti l’incidente non fu messo in dubbio sotto il profilo della non responsabilità del macellaio, ma giudicato sostanzialmente tardivo nella sicura casualità, rispetto alla durata e all’evolversi delle continue vessazioni della moglie. Non vi fu rinvio a giudizio. L’omicidio venne archiviato e mai più riaperto. Non so se i fatti che mi erano stati narrati siano avvenuti così, ma dalle leggende metropolitane non si può pretendere certezza. 

Piercarlo Barale 

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