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E dopo aver raccolto pesche, la prima fuga all'estero senza i genitori

ALBA

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TERESIO ASOLA - Alba, 1977. Archiviata la terza liceo scientifico e raccolte pesche per un mese in un podere nei pressi della collina fra San Cassiano e Roddi sul cui fango i partigiani avevano arrancato nella fuga dopo i 23 giorni, ad agosto salii sul treno col mio amico Alex. Si andava a lavorare a Fladbury, paesino inglese vicino a Evesham. Per la prima volta, zaino nuovo da alpinismo in spalla pagato coi soldi delle pesche, avrei buttato il naso oltre la fila di tigli, i binari e la cimosa di colline visibili da casa mia.

Avevo trovato lavoro mesi prima, grazie al British Council di Torino che aveva gli uffici nell’ultimo palazzo di Corso Vittorio Emanuele prima del Parco del Valentino. Spuntata una rosa di indirizzi, scrivemmo a più agricultural camps finchè uno accettò entrambe le domande. Insieme, io e Alex ci preparammo per la prima avventura senza genitori.

Per tutto l’anno avevo sentito storie di Africa nera dell’assistente di fisica e quelle tibetane del professore di disegno, che ogni mattina arrivava al liceo di Alba da Cuneo a bordo della sua Land Rover passo lungo. Mentre ci sorvegliava affannati sui nostri capolavori di prospettiva o di ornato, il professore camminava per l’aula battendo i tacchi col rinforzo di metallo, si aggiustava il pince-nez antico e ci parlava di bagni nei laghi ghiacciati, di fenomeni di levitazione cui aveva assistito in qualche sperduto monastero tibetano, di clavicembali inglesi comprati a Londra per suo fratello e di pollastre. Sui tutti i quattro punti noi eravamo digiuni. Sull’ultimo, soprattutto; disegnavamo, ridevamo e controllavamo gli occhietti neri del professore che rimbalzavano svelti dietro il pince-nez sopra i baffoni neri da orientale. E sognavamo, mentre cercavamo di far scendere l’inchiostro dalla cartuccia.

Partimmo. Alla tappa parigina in un albergaccio di Rue des Carmes, ci sentimmo domandare da un ammiccante albergatore qualcosa che suonò come:

«Vous voulez des femmes

Disorientati dalla domanda e impreparati sull’argomento, io e il mio amico ci lanciammo un’occhiata che rimandò a entrambi lo sguardo imbarazzato dell’altro.

Accennammo all’unisono un frettoloso «non, merci» e sgattaiolammo fuori per le strade del Quartiere Latino. Sorridemmo, fuori. Sapevamo che lo scambio di battute con l’albergatore l’avremmo raccontato, un giorno.

Era il tredici luglio, sera di vigilia. A ogni angolo un cambio di scena, come fotografie di Robert Doisneau: un’orchestrina, musici di strada, giri di accordeon, valse musette, rade prostitute, ovunque chiacchiericci, grida, petardi, qualche canto, mentre nel cielo ovunque sbocciavano cascate di fuochi d’artificio. Non mi sarei stupito di vedere un marinaio baciare una ragazza vestita di bianco, riversa all’indietro, abbandonata nell’abbraccio potente del suo lupo di mare dal berrettino candido, incuranti entrambi della folla.

Tornati all’hotel, ci mettemmo a dormire. Spenta la luce, esplodemmo in una risata irrefrenabile a coprire le arie di musette che salivano dalla piazza vicina: dieci minuti buoni di risata memorabile, liberatoria, le lacrime agli occhi, ripensando all’enormità delle parole dell’albergatore e a quell’inizio della nostra prima avventura nella Parigi del Moulin Rouge e di Pigalle che sapeva ancora dei gonnellini di banane della Josephine Baker e di quella Montmartre di cui papà raccontava, le molle del lettaccio sgangherato cigolanti ai sussulti del riso. Più cercavo di trattenermi, più ridevo. Più ridevo, più il letto gemeva.

Teresio Asola

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