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CEVA/ Studenti ad Auschwitz: "Non le chiamiamo gite, questi viaggi ti cambiano dentro"

MONDOVì

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SERGIO RIZZO - "Siamo saliti sull’aereo. Chiudo gli occhi e mi lascio cullare dal rumore dell’aeroplano. Ma, di colpo, il rumore non è più quello di un aereo. Immagino di essere su un treno, sento lo stridere delle ruote contro i binari. Sto viaggiando verso Auschwitz. Mi metto nei panni di un ebreo, sento la fatica di stare in piedi, di avere poca aria, una voglia matta di dormire ma non è possibile. Siamo stipati come acciughe. Poi il comandante ci annuncia che la fase di atterraggio è iniziata. Meno di due ore e siamo tornati in Italia. Non così per gli ebrei deportati. Giorni e giorni in piedi, senza acqua e cibo, senza la possibilità di andare in bagno come di dormire. Ma tutto questo era nulla rispetto a ciò che sarebbe successo nel campo. Adesso sì che diventa impossibile mettersi nei loro panni. La visita del campo di Auschwitz e di Birchenau ci ha permesso di intuire solo qualcosa del tremendum che è capitato alle porte di Varsavia", ha detto il prof Giulio Tiraboschi del Cfp di Ceva, in provincia di Cuneo, dopo il viaggio della memoria ad Auschwitz.

Di seguito alcune osservazioni che i sei allievi del CfpCemon che, insieme, grazie al progetto Memoria Futura contro le discriminazioni finanziato dalla Fondazione Crc, hanno condiviso e portato avanti. "Questo viaggio mi ha fatto pensare molto con la paura che questo potrebbe capitare di nuovo e coinvolgere i miei figli. Ho capito che è importante ricordare quanto è successo”. “La visita del campo è stata per me toccare con mano quanto è successo: quanto desideravo poter vedere e capire quanto è successo”. “Vedere i forni e le camere a gas con i graffi delle persone disperate: che impressione! Quanto dolore ha provato quella gente e quanta cattiveria in coloro che maltrattavano”. “I capelli, tutti gli oggetti personali di moltissime persone, le camere a gas e i forni crematori mi hanno impressionato molto, perché pensare che possa esistere una macchina di morte come questa è veramente impressionante”. “Mi ha colpito la grandezza di Auschwitz: quante persone vi hanno abitato e quante da lì non sono uscite vive.” “Non oso pensare se in quel campo ci fossi stata io”. Sono riflessioni di quindicenni che hanno avuto il coraggio di viaggiare in Polonia sapendo che un viaggio è una scommessa infinita.

"Non le chiamiamo gite - prosegue il prof -. Le gite sono un momento di svago, di socializzazione. Il viaggio, invece, ti cambia dentro. Il viaggio ti mette davanti al naso e talvolta anche in mano quanto succede o è successo. Come uno specchio di costringe a riflettere e a cercare di capire ciò che i tuoi occhi vedono da così vicino. Il viaggio porta pensieri, parole ed azioni nuove. Il viaggio è un modo di fare scuola dove gli allievi diventano protagonisti della storia. Cosa succederà nella vita di questi ragazzi non è dato saperlo. Oso sognare che per loro ci sia una maggiore attenzione di fronte ad una discriminazione, magari il coraggio di dire una parola, di compiere un gesto. Allora il viaggio non sarà stato inutile. Il viaggio è stata una bellissima esperienza, lo si deve a tante persone e troppo spesso ci dimentichiamo che la gratitudine dovrebbe essere al cuore delle relazioni umane. Il primo grazie va alla Fondazione Crc che ha finanziato un progetto che ci sta aiutando a riflettere sulle discriminazioni. Insieme, mi preme ringraziare la progettazione del Cfpcemon che ci ha appoggiato in quest’avventura, il Direttore che accettato il fatto di farmi accompagnare i sei ragazzi in terra polacca. Grazie anche alle sei famiglie che si sono fidate del Cfpcemon e hanno affidato i loro figli per un viaggio in una terra lontana. E infine un grandissimo grazie ai sei protagonisti di questo viaggio che si sono dimostrati maturi e responsabili, molto più di quanto mi sarei aspettato data la loro giovane età”, conclude Tiraboschi.

Sergio Rizzo

(Nella foto: il prof. Giulio Tiraboschi insieme ai sei ragazzi)

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