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Capitan Schettino in carcere dopo 5 anni: solo da noi poteva succedere

CUNEO

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PIERCARLO BARALE - Dopo tre processi - sono tre i gradi di giudizio nel nostro Paese, culla della giustizia - in attesa di un eventuale ed annunciato come probabile, ricorso alla Corte Europea dei diritti - il notissimo capitano Schettino è entrato nel carcere, che egli stesso ha scelto: Roma - Rebibbia - anzichè quello assai frequentato di Napoli - Poggioreale - che lo attendeva in base alla residenza.

Da tragedia immensa a sceneggiata tutta nostrana. L'imputato era libero dal 13 gennaio 2012 - giorno del naufragio volontario della Costa Concordia con 32 morti - fino all'ingresso nel carcere il 12 maggio scorso. Ciò è impensabile ovunque, sia ad Ovest che ad Est.

Il nostro principio costituzionale della non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio - e la carenza di misure cautelari - fanno acqua da troppe parti. In questo caso si è notato il totale distacco - per eccesso di civiltà giuridica e di garantismo - tra il modo e soprattutto i tempi da noi utilizzati e quanto sarebbe avvenuto altrove.

Quasi - o senza quasi - ovunque, l'ineffabile capitano coraggioso sarebbe finito in carcerazione cautelare il giorno 14 gennaio 2012, per essere processato entro qualche mese - un anno al massimo. Avrebbe riportato una condanna immediatamente esecutiva certo più pesante ed atteso in carcere l'eventuale appello, da esperirsi entro qualche mese.

Il responsabile del naufragio e del successivo comportamento contrario ad ogni principio di diritto e di professionalità, ha circolato tranquillamente, tenendo anche conferenze all'Università e partecipando come inviatato di riguardo a pranzi di gala. La sua figura era ritenuta meritevole di attenzione o portatrice di valori da illustrare. Come se 32 morti sulla coscienza fossero un'inerzia.

Così come i 66 milioni che per causa sua la società armatrice - Costa - ha finora corrisposto alle parti civili; nonché la distruzione della nave, da poco entrata in servizio - costo 600 milioni -; le spese per la riemersione del relitto, il trasporto e la demolizione con il recupero delle parti utilizzabili; il danno ancora da risarcire all'Isola del Giglio.

Se l'è cavata con 16 anni di reclusione, sui 27 richiesti dalla pubblica accusa. Assai poco per tanti reati e tanti morti. Resterà in carcere solo otto anni, salva anticipata possibilità di lavoro all'esterno o di licenze premio. Potrà godere, da metà pena in poi - salvi condoni - della semilibertà; poi di eventuale detenzione domiciliare.

Negli Usa almeno venti'anni effettivi dal 14 gennaio 2012 in poi lo avrebbero atteso. La nostra mite giustizia non lo ha penalizzato per la gigioneria da play boy con la quale ha guidato la nave e neppure la fuga precipitosa, con l'abbandono dei passeggeri ed il totale disinteresse per quanto aveva combinato.

Le sentenze penali non devono penalizzare il reo oltre quanto previsto dalla legge. Ne sarebbe pregiudicata la legalità della pena. La decisione, pure se costituente monito per altri eventuali comportamenti simili, sarebbe contra ius. Si deve punire il reato, non fare opere di persuasione morale o di vendetta della società.

Per il capitano Schettino, che ha tenuto un comportamento indegno della tradizione marinara del nostro Paese, la sanzione penale avrebbe dovuto essere più pesante, senza peraltro eccedere, quanto fissato dalla legge, come ha proposto la pubblica accusa.

Trentadue morti, numerosi feriti, il naufragio colposo, l'abbandono della nave, l'abbandono di incapaci e l'omessa comunicazione alle autorità marittime, ben meritavano i ventisetti anni di carcere richiesti. Neppure un euro il capitano Schettino pagherà per i danni di natura civilistica corrisposti in solido dalla Costa come proprietaria della nave distruttua. Anzi, avrà probabilmente l'indennità per la fine del rapporto con la sua datrice di lavoro - la Costa, appunto.

Quasi cinque anni di processi, con l'imputato libero di pontificare su come deve essere gestita l'emergenza in mare, addirittura all'università - paiono una beffa per la collettività non solo nazionale, di fronte ad una tragedia immensa. Alla fine, la pena inflitta pare inadeguata e soprattutto tardiva.

Piercarlo Barale

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