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In casa a Bra tra i ricordi di un Carnevale senza tempo

BRA

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FIORELLA AVALLE NEMOLIS - I ricordi in casa a Bra (Cuneo) sono tanti. Sotto gli occhi, per anni, sempre gli stessi, che giorno dopo giorno ci accompagnano. Ma noi, giorno dopo giorno, non li sfioriamo neanche. Passiamo accanto senza vederli. Sono lì, che fretta c'è. Stasera, invece, mi soffermo su un quadro con trentina di foto assemblate. Ben visibile, con una scritta in pennarello rosso: "Venezia 1985".

Negli anni '80 ci fu un ritorno tiepido al Carnevale, mi mancava quella giostra di colori, coriandoli, fruscii di abiti e tanta allegria. Marzio, per consolarmi, mi regalò un libro di fotografie di Fulvio Roiter, noto fotografo nativo di Meolo, un paese vicino a Venezia. Sfogliavo le illustrazioni con golosità: altroché pasticcini per me! Una dolcezza infinita. Maschere colte negli angoli più caratteristici della città. Costumi ricchi, sfarzosi, indossati da chi conosce e respira la tradizione del carnevale. “Marzio, mi porti al Carnevale di Venezia?”.

Arrivammo a Venezia dopo cinque ore di viaggio. Già, e per il costume? Prima di partire mi specchiai: perfetta, vestita come ogni giorno. Meglio di così. Erano gli anni della moda elastica, poca tendenza, sicchè decisi che per me si addicevano le gonne lunghe. E' evidente che non erano di moda, ma a me piacevano così, lunghe fino ai piedi. Dritte, fascianti e con spacchi vertiginosi. Altrimenti, come scendere dall'auto senza fare squarci alla gonna per non capitombolare sull'asfalto?

Quel mattino indossavo la solita divisa: gonna lunga, stavolta bluette, camicetta in tinta, gilet sancrato nero in broccato, tronchetti neri e sopra una pellicciotta di agnello bianca, con un collo a scialle di volpe. Sancrata in vita, svasata e lunga fino alle caviglie. Un acquisto in saldo. Era esposta nella vetrina di un elegante negozio d'angolo in via Principi a Bra. Il classico capo per attirare l'attenzione, che nessuno comprerebbe. “Santo cielo, bella è bella, ma bianca, e lunga! E quando la metto?”. Era la frase di tutte le clienti attratte da quello splendore, che ripiegavano, poi, sul solito castorino marrone.

Sicchè, un giorno mi presentai e chiesi di misurarla. I titolari, moglie e marito già di una certa età, avevano stramaledetto il giorno di quell'acquisto avventato, arcistufi di sentirsi ripetere la solita frase: “Non fa per me”. Intuirono, che invece, faceva per me. Un po' di tira e molla, con il libretto d'assegni aperto e la penna pronta a scrivere il prezzo... fino a che scese vertiginosamente. Uscii felice, io, con la pelliccia indosso e forse ancora di più loro. Per renderla meno vistosa ci adattai una cintura con tanti disegni a losanghe in diversi colori. Era una cinghia da chitarra che avevo trasformato.

Io, trasformista per passione, ho sempre usato i capi in diversi modi. Mai nel modo diciamo usuale. Gli scaldamuscoli, perchè solo a scaldare gli arti inferiori? Vietato forse coprire quelli superiori? Con una camicetta di seta, per non sentire freddo, li indossavo (e ancora indosso) sulle braccia, per un tocco originale, ma anche caldo. Il solito cappello di feltro nero larga falda, un po' stile brigante, con l'aggiunta di un piumino rosso d'oca, strappato all'ultimo momento da quello per spolverare. Che divenne sempre più spelacchaito per esigenze stilistiche. Ero pronta. A Bra ero normale, come uscivo di casa. A Venezia perfetta in costume.

Giunti a Venezia, il problema era trovare una stanza d'albergo. Risolvemmo grazie a un nostro conoscente del luogo che ci trovò posto in un alberghetto a Mestre: una stanzetta in una mansarda, ci disse, un po' rimediata per i casi d'emergenza. La prenotammo sulla fiducia. Ed ora eccomi sul Canal Grande, la via più bella al mondo. Allargo le braccia e mi lascio avvolgere da questo incanto. Sul vaporetto mi estranio dal brusio dei turisti e, in silenzio, il mio, seguo il procedere lento e i palazzi fiabeschi ondeggiano, anzi si inchinano. Lo stesso gesto elegante di sfarzose dame, misteriose, col volto coperto da maliziose mascherine orlate di pizzo, con sorrisi di labbra rosso fuoco e pallori di porcellana ornati da parrucche imponenti ed elaborate. E sfilano sorridenti, i palazzi, che si specchiano vanitosi nell'acqua. Mostrano i loro volti antichi: preziose facciate ricamate di marmi, tra colonnine sottili, slanciate e dipinti a raccontare mille anni di splendore della Repubblica veneziana.

Una gara al più bello. L'aria mi sferza il viso: sì, son desta. Non è un sogno! Sto scivolando sul Canal Grande, dove si specchia un tempo andato. Mi sorprendono figure di maschere veneziane, sfilano sull'acqua e mi fanno un cenno con la mano: Arlecchino si inchina malizioso: “Servo vostro”, e c'è anche la sua fidanzata Colombina, servetta furba, spesso oggetto delle attenzioni di Pantalone, il ricco mercante veneziano avaro e brontolone. I miei pensieri si intrecciano con le commedie di Goldoni e in platea mi godo lo spettacolo. Ma eccoci arrivati sull'unica grande piazza di Venezia: Piazza San Marco.

La folla è tanta: un turbinio di maschere, eleganti, bellissime, elaborate. Ricche sfarzose di sartoria. Magiche, perchè la maschera nasconde la propria identità, interpreta il ruolo di chi, forse, vorremmo essere. Venezia è speciale per questo. Ci muoviamo tra calle, angoli, scorci incantevoli che fanno da sfondo alle maschere che si muovono con eleganza, mai sguaiate, interpretano il ruolo prescelto. “Buongiorno Siora Mascara” mi sento dire. “Buongiorno”, rispondo con un inchino. E girammo fino a sera.

Ma per celebrare il Carnevale fui vittima di un singolare scherzo. Entrammo nella hall dell'abergo, l'inserviente ci accompagnò nella camera. Camera? Un ripostiglio. La porta si apriva sul letto. Lo spazio di un metro per muoversi. Al fondo del letto una porta a soffietto aperta: il bagno per i lillipuzziani. Dalla tazza al bidet, appena qualche millimetro. L'unica cosa vera era la mansarda. Marzio si distese sul letto: impossibile circolare nella stanza. Ma quale stanza? Insomma, l'inserviente si aspettava: “Ma è uno scherzo?”. Invece, Marzio ed io ci guardammo e scoppiammo a ridere.

Sì, ma lo scherzo non era quello! Crollai in un sonno profondo, tramortita di stanchezza, e durante a notte andai in bagno. Non mi sognai di chiudere la porta a soffietto del bagno, mi mancava l'aria. Seduta sulla tazza, ancora nel mondo dei sogni, scorsi davanti a pochi metri il letto e, appoggiato alla testiera, un essere sconosciuto. Mai visto. Pallido, sembrava un extraterrestre. Dov'era Marzio? Cosa ci faceva quell'essere lunare nel mio letto. Avevo dormito accanto a Et? Cacciai un urlo: Marzio vieni qui! Dallo spavento sbattei la testa contro le piastrelle del bagno (quelle orribili verde pallido), incastrato in pochi metri quadri. L'essere lunare si avvicinò: ci volle poco, un metro appena. “Sono io, sono Marzio!”.

Lo sciagurato nottetempo aveva deciso di tagliarsi quel barbone che dal 1970 portava con fierezza. Cambiava completamente fisionomia. Per giunta il pallore dopo la rasatura gli conferiva un che di inquietante. Riuscì a calmarmi. Capii che era proprio lui. Ma perché? “Mi hai sempre detto che mi preferivi rasato...ho pensato di farti una sorpresa!” rispose con candore. Ma la faccia del signore alla reception, che la sera prima mi aveva vista salire, in maschera, con un signore barbuto, quando mi vide al mattino con accanto un altro, sbarbato e pallido, me la ricordo ancora adesso. Come spiegazione, non dovuta, dissi: “Cosa vuole, a me piace cambiare!”.

Fiorella Avalle Nemolis

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