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Bra, ricordi di infanzia a Porto Azzurro: dal calesse alla Vespa

BRA

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FIORELLA AVALLE NEMOLIS - Quando ancora non c'erano le automobili, o perlomeno erano rarissime, a Porto Azzurro si circolava: a piedi, in bicicletta, a cavallo, in groppa all'asino, o in calesse. I più fortunati, invece, sfoggiavano la vespa. Un po' buffa, così larga di fianchi e col vitino da vespa, appunto. La trovavo bellissima. E poi, agile e maneggevole, guizzava e si infilava dappertutto.

Altro che il calesse! Lento. Clop, clop, clop. E in preda alle bizze del cavallo. Le uscite in calesse erano eventi straordinari. Si andava al porto ad accogliere i miei genitori quando ci raggiungevano per le ferie agostane.

Per l'occasione, io che ero già vanitosa, mettevo in croce nonna Assunta: "Nonna, mettimi il pagliaccetto con le ochette!". Era il mio preferito, aveva anche il cappellino uguale. Sempre con le stesse ochette. Bianche e con un becco, così arancio, ma così arancio! Una vera bellezza. Gli altri erano a fiorellini. Ordinari. Tutti l'avevano. Sicché, quello con le ochette era per le grandi occasioni. Con questa mise, ovvio, banditi gli zoccoletti. Infilavo i celebri sandalini blu, in pelle, chiusi davanti e dietro e con due buchi sulla punta. Come due grandi occhi, per dare respiro al piede. Anche se, di respiro, ne davano ben poco. Però sopportavo. Troppo eleganti!

La discesa ripida dal Palmizio era sempre un'avventura. Nonno Ettore scendeva per sicurezza e accompagnava il cavallo. Avevo il terrore con il calesse così inclinato di scivolare giù dal sedile di legno. E quando il cavallo si voltava di scatto, infastidito dalle mosche, osservavo ammirata quel bel muso allungato, elegante. Peccato che i paraocchi nascondessero un po' quello sguardo languido. Così dolce! Mentre camminava, ogni tanto, faceva qualche bisognino solido. Mi sconcertava la quantità di quella roba lì, quanta ne usciva. Possibile? Mangiava così tanto? Quando, finalmente nonno Ettore rimontava sul calesse, la strada era in piano. Finita la discesa. Passata la paura. Ora potevo rilassarmi e pensare solo alla gioia incontenibile di riabbracciare i miei genitori.

Insomma, prima o poi in paese ci si arrivava. Si mangiava tanta polvere. La sentivo scricchiolare sotto i denti. All'arrivo i sandalini blu erano rossicci color terra argillosa e così, anche le ochette del pagliaccetto. Nonna Assunta era impeccabile in chemisier di seta color caffè a piccoli pois beige chiaro, un cappello a bustina in paglia finissima nero lucido, con una maliziosa veletta che le scendeva appena sulla fronte. Apriva l'ombrellino di stoffa, arricciato al bordo, fondo beige con fiorellini rosa e blu. E non era solo un vezzo. Il sole picchiava forte. Stordiva, tanto era insopportabile.

Arrivati al porto iniziava la trepida attesa. Fremevo. E appena dal molo sbucava la prua della nave, ero come paralizzata. Mi mancava il fiato. Accompagnavo la nave, la spingevo con lo sguardo. Per fare prima ad abbracciare i miei genitori. Mentre la nave si accostava alla banchina, correvo avanti e indietro cercando di vederli. Si scorgevano solo tante teste, volti sorridenti e mani che sventolavano i fazzoletti. Scene da film.

Erano i parenti che tornavano dal continente in vacanza. Nonna Assunta mi richiamava. “Fiorellina, mi cadi in acqua. Vieni qua. Subito!” Da terra, agganciavano la passerella alla nave. I passeggeri scendevano. Era una gran festa.  Non c'era ancora turismo come negli anni a venire. Finalmente sbucava babbo con la vespa per mano. E mamma Gina dietro. Era vestita all'ultimo grido. Pantaloni alla pescatora azzurri, con una maglietta scollata a barchetta, stessa tonalità d'azzurro. Cappellino in cotone con visiera in tinta. Piuttosto elegante come tenuta da vespa. Molto ambiziosa era la mia mamma. E io in questo le somiglio.

Le automobili, invece, le agganciavano con grosse reti dalla poppa della nave per posarle con cautela sulla banchina. Solo anni dopo, le auto entrarono nella pancia della nave, per poi riuscirne all'arrivo. Abbracci e baci. Tanti. I miei genitori accaldati, sfiniti. Dal Piemonte a Piombino, un lungo, lunghissimo viaggio. Circa 400 chilometri. In vespa.

Ma io non davo tregua. Salivo sulla vespa davanti e non ne scendevo più, e così, aggrappata al manubrio, tornavamo al Palmizio con i miei genitori. Non volevo staccarmi da loro neanche per un minuto. I nonni tornavano in calesse. Giunti al Palmizio, c'era un gran trambusto nella casa: valigie, abiti, pacchi, tanto da sistemare nelle camere da letto. Ed io non mi scollavo un momento da mamma Gina. Non sapevo più che fare perché mi desse retta. Ero un continuo "Mamma, mamma, guarda, nonna mi ha comprato gli zoccoletti nuovi. Mamma, mamma, quando andiamo al mare, ti faccio vedere come faccio i ciuffi (i tuffi), e sempre così. Finché arrivava sera. Dopo cena babbo Mario con il suo fare burbero e l'indice puntato: “Fiorellina, fila subito a letto!” Ed io, col muso lungo e tanta malinconia, salivo le scale ripidissime al piano di sopra, dove c'erano le camere da letto. Poi, infilata svelta, svelta, la camicina da notte, colore verde pisello, un po' aperta davanti, con una fila di  bottoncini di madreperla bianchi, scendevo, scalza, spazzando con l'orlo gradino per gradino. Apparivo poi, all'improvviso, al cospetto del parentado riunito in allegria, sotto la pergola. “Che ci fai tu qui?” Tuonava il babbo. Piagnucolando, per impietosire il pubblico, me ne uscivo con una scusa insostenibile: "Non riesco proprio ad abbottonarmi la camicia da notte".

Mia mamma capì quanto loro mi fossero mancati, mi prese in braccio e mi riempì di baci. Ah, la forza dell'amore!

Fiorella Avalle Nemolis 

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