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Bra: "Quando tua figlia, l'americana, ti suggerisce di sbarazzarti del superfluo"

BRA

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FIORELLA AVALLE NEMOLIS - Finalmente quest'anno abbiamo festeggiato il compleanno di nostra figlia Sara, l'americana, a San Michele di Bra. Solo noi tre Map felici davanti alla torta, niente candeline, ormai sono troppe. Era piccina quando mi annunciò: “Mamma a Bra non ci voglio stare, andrò a vivere in un'altra città”. Non ci feci caso, aveva appena compiuto 4 anni.

Però, 22 anni fa, con lo zainetto sulle spalle ci annunciò: “Vado a cercare fortuna in America”!. L'avevo già sentito questo ritornello: “Mamma mia, dammi cento lire che in America voglio andar. Cento lire io te le do. Ma in America no, no, no!”. E' una canzone popolare, intitolata Le mondine, che tratta dell'immigrazione verso le Americhe nella seconda metà del 1800. Noi genitori MAP non dicemmo no!

Ma cento lire non bastavano e, per prudenza, elargimmo una cifra esigua - quando finirà i soldi, vedrai che torna -. Ci eravamo illusi. Infatti dal 2001 Sara vive e lavora negli States. Ci divide l'Oceano. Eh, che sarà mai! Due bracciate e siamo lì. Da poco si è trasferita ad Austin in Texas - Los Angeles è una città caotica, non fa più per me -. Ognuno ha i suoi tempi.

Al suo attesissimo arrivo, appena entrata in casa, dopo baci, abbracci e occhioni lucidi, ha dato uno sguardo circolare all'ambiente: “Dall'ultima volta che sono tornata c'è ancora più roba! Cosa ve ne fate? Nel trasloco da Los Angeles ad Austin ho eliminato tanti rabadan, sono solo ciapa puer! "Ti preoccupa disfare casa quando non ci saremo più?”- Ma che dici? Non è per questo".

La casa di Sara è minimale: grandi spazi, pochi mobili, pochi oggetti, poco di tutto. Lo stretto necessario. E' assistant General Manager nell'Alma Hacienda a Georgetown, dove si occupa della sezione ristorante; quindi la casa è la sua cuccia per dormire, tranne per i due giorni di riposo. In compenso è la casa di Asher, il suo gattone nero che, beato, trascorre la giornata in un ambiente confortevole e spazioso.

Inizio l'operazione sgombro perlustrando il primo cassetto del vecchio comò: mi si presenta dinanzi un'inquietante orgia tra tanti oggetti, riposti lì, anno dopo anno, discordanti tra loro, in una assurda promiscuità. Eppure un legame doveva esserci. Che fosse per non dimenticare il passato?

Insomma rovistando trovo le stecche di plastica, quelle che si infilavano nei colletti delle camicie. Non-si-buttano! Dovessero servire a Marzio, geniale professionista del riciclo? Il suo mantra è “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. E' la legge di Antoine Laurent de Lavoisier, scienziato del Settecento, iniziatore della chimica moderna. Così tra tutti quegli oggetti dimenticati, inizio un lungo viaggio che, da metà del Novecento, va fino all'anno Mille Ventitré.

Nel cassetto ritrovo quel sapore dimenticato, per la frenesia della vita giovanile. Tra polverose scatolette di latta, come quella di Hotel Sacher WIEN, rinvengo persino una patetica cintura di nappa colore aragosta dal giro vita di 52 centimetri, da fare invidia persino alla mitica Audrey Hepburn. Mancano i calzini spaiati, beh, ormai è risaputo che la colpevole è la lavatrice, si dice che li mangi.

Dal fondo del cassetto rotola una bottiglietta di vetro alta circa 18 centimetri, con il tappo di vetro a scatto, lo apro a fatica, annuso il contenuto, è una nauseabonda acqua di lavanda. E' il ricordo di un personaggio davvero singolare: il venditore ambulante di lavanda.

A metà anni Settanta, quando ero già titolare del negozio MAP a Bra, ogni anno, sotto i portici di via Principi di Piemonte, appariva il suddetto personaggio con le sue boccette di acqua di lavanda. Mi colpiva l'imprescindibile fedeltà a se stesso e la noncuranza di cosa pensasse la gente.

La prima volta che lo vidi, per la postura e l'aspetto, l'avevo quasi scambiato per un comico di Zelig che, per caso, stesse passando lì; indossava calzoni sformati in fustagno “quattro stagioni”, sempre gli stessi, color castagna, un maglioncino striminzito scollato a V, sferruzzato a mano con gomitoli di lana color melange missonesco, tutti a fine corsa, appena sgusciati dal cestino da cucito della nonna.

Dallo scollo a V del maglioncino griffato Avanzi, spuntava un colletto di camicia stazzonato e sbiadito da troppi lavaggi, fantasia a quadretti color pisello pallido e color castagna arrostita. Calzava scarponcini in cuoio alti fino alla caviglia, con legacci, che anch'essi erano “quattro stagioni”, mentre sul capo, appoggiato sopra un cespuglio di riccioli, che mai videro un pettine, aveva un cappello color castagna chiaro e di forma indefinibile: un incrocio tra berretto e modello Borsalino.

Un cappello così versatile, che con qualche piccola manovra, si trasformava a seconda della necessità: tesa su per le giornate buie, tesa giù per le giornate soleggiate, oppure per quelle piovose. Il vero capolavoro del venditore di lavanda era il volto: un impasto ben amalgamato di semplicità e candore, condito con una generosa porzione di dignità, dal quale sporgevano gote paffute e rubiconde di chi vive all'aperto, occhietti pungenti a spillo colore nocciola e un sorriso innocente aperto alla vita.

Era un'anima trasparente col cuor contento. “Signora, la vuole una boccetta di lavanda? La preparo proprio io!” Un modo diretto ma garbato per approcciarsi ai probabili clienti. La parlata, con uno spiccato accento dialettale, fluiva lenta come un mantra, mentre porgeva la preziosa boccetta di acqua di lavanda. Restava immobile come una statua, con appena la punta degli scarponcini posata sulla soglia del negozio.

Ero affezionata al folcloristico venditore di acqua di lavanda. Provavo tenerezza e ammirazione per l'incrollabile fedeltà a se stesso: incurante delle occhiatacce della gente, lanciate come schegge di disapprovazione e di derisione per il suo abbigliamento fuori moda.

Erano gli effervescenti anni Settanta, quando le ragazze indossavano stivali alti fino alle ginocchia, minigonne giusto all'altezza dell'inguine e magliette attillate fino all'inverosimile. Gli uomini indossavano pantaloni a zampa di elefante, camicie aderenti con vistosi disegni fantasia e stivaletti in cuoio che arrivavano appena alle caviglie: erano i famigerati Camperos.

Il venditore di lavanda non dava mai segni di disagio, restava indifferente agli sguardi fulminanti di quei criticoni incalliti, gli stessi che vent'anni dopo, rivedendo se stessi ritratti nelle foto ricordo, si sentirono ridicoli vestiti alla moda di allora. Ah! Che stranezza la moda tiranna.

Qui finisce il racconto del venditore di lavanda, però dimenticavo che nel cassetto c'è un altro importante ritrovamento molto significativo: un pacchetto di sigarette Slims Multifilter, ne ometto la marca, con la scritta Il fumo uccide. Sopra c'è scritto: 6/12/2004, l'ultimo pacchetto! Contiene ancora due sigarette a ricordo di me fumatrice indefessa, finché nel 2002 sul letto di morte, promisi a mamma Gina che avrei smesso di fumare. E così feci.

Informo i tabagisti che ho smesso di fumare, in compenso salgo le scale di corsa, sono avvicinabile perché non ho l'alito cattivo, le dita dell'indice e del medio non sono più ingiallite e la casa non è più affumicata. Dimenticavo: ho fatto il conto di quanto risparmio all'anno. Una cifra!

Fiorella Avalle Nemolis

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