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Sanità piemontese: il nodo del personale, come affrontarlo?

CUNEO

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CORRADO BEDOGNI - In Italia, come nel resto dell’Europa, le dimissioni volontarie hanno caratterizzato il mercato interno del lavoro del 2022. 1.255.000 lavoratori a tempo indeterminato hanno lasciato il proprio impiego (+9,7% rispetto al 2021, +24% rispetto al 2019). Se si considerano, poi, i lavoratori a termine e stagionali, il numero arriva a 2.156.000 (+13,3% rispetto al 2021, +27,8% rispetto al 2019).

Anche nelle Aziende Sanitarie Il fenomeno delle dimissioni volontarie sta assumendo, nonostante le forti barriere all'entrata e all'uscita presenti nel settore pubblico, dimensioni significative. Nella figura sono indicate le percentuali di medici che si sono dimessi nel 2020 e 2021 in ogni Regione e Province autonome. 

Il fenomeno delle “dimissioni inattese” ha aggravato la carenza di personale sanitario, che se per i medici specialisti ha caratteri di temporaneità, per gli infermieri è assolutamente strutturale. In Italia infatti ci sono 3 infermieri ogni 1000 abitanti in meno rispetto alla media di 8,8 infermieri ogni 1000 abitanti registrati nei paesi OCSE, fatto che ha portato la Corte dei Conti a quantificare in 65.000 unità la carenza complessiva di infermieri in Italia.

In Piemonte, nel 2022, i medici che si sono licenziati volontariamente sono stati 332 (il 4% dei medici ospedalieri, al netto dei pensionamenti e dei trasferimenti ad altre aziende). Di questi, 40 sono andati nella medicina convenzionata (Medici di Medicina Generale, MMG); 10 nella Pediatria di base (Pediatri di Libera Scelta, PLS); 18 nella specialistica convenzionata, e ben 292 nella libera professione a Partita IVA. 

I medici che più frequentemente si dimettono appartengono alle specialità di Anestesia e Rianimazione, Medicina e Chirurgia di Urgenza, Psichiatria, seguiti a distanza da tutti gli altri Specialisti.

Per reagire a questa tendenza che amplia il ricorso alla Sanità privata a spese del Servizio Sanitario Nazionale possono essere adottate varie misure. 

La prima consiste nel mettere a punto una metodologia uniforme su tutto il territorio nazionale per definire il fabbisogno di personale sanitario (DM 24/01/2023) e nell’aumentare i fondi a disposizione della Sanità, in modo da consentire alle Regioni di superare il tetto di spesa per il personale. Richiesta cui il governo dovrebbe rispondere positivamente, senza se e senza ma.

La seconda consiste nel superare il divario di remunerazione esistente per il personale sanitario in Italia rispetto alle altre nazioni dell’Unione Europea. Obiettivo che può essere raggiunto con diversi strumenti: innanzitutto mediante l’approvazione tempestiva dei contratti di lavoro. In secondo luogo con la revisione radicale delle politiche contrattuali che consenta di valorizzare in modo consistente le parti variabili dello stipendio, con particolare riferimento allo stipendio di risultato. Che potrebbe anche essere defiscalizzato con provvedimento a livello nazionale.

Le Regioni potrebbero inoltre regolamentare, ma nello stesso tempo rendere più attrattive, le prestazioni aggiuntive chieste ai professionisti per evitare il ricorso alle esternalizzazioni; remunerare le forme di disagio comprovato come, ad esempio, l’assistenza in zone di montagna e, infine, negoziare ulteriori forme di flessibilità, per periodi temporalmente definiti, per sopperire alla carenza temporanea di professionisti, a fronte di quote aggiuntive di salario accessorio. 

In questo elenco di provvedimenti non potrebbero poi in alcun modo mancare misure volte alla valorizzazione professionale del personale che rappresenta, invero, il costo più importante per il SSN, ma anche la risorsa decisiva per un efficiente servizio sanitario pubblico e universale.

Misure che consistono nella piena equiparazione degli incarichi gestionali e professionali in modo da disegnare percorsi di carriera oltre che per la dirigenza anche per il comparto (percorso consolidato per la dirigenza sanitaria, ma solo avviato per il personale del comparto: infermieri, ostetriche, tecnici di laboratorio, ecc.), garantendo in tal modo lo sviluppo delle competenze avanzate per le professioni sanitarie (a partire dall’introduzione dell’Infermiere di comunità operata dal DM 77/2022 e dal nuovo CCNL 2019-2021). 

Di non secondaria importanza, soprattutto dopo la fase pandemica, sarebbe inoltre il progetto di riforma dell’organizzazione che consenta di migliorare, da un lato,  le condizioni di lavoro e, dall’altro,  la qualità della vita degli operatori con soluzioni compatibili con le esigenze aziendali (es. asili nido all’interno delle strutture).

Sussiste infine tutta una serie di interventi accessori, all’apparenza di minore importanza, ma decisivi per superare l’attuale fase di difficoltà del SSN, consistenti nell’approvazione di un pacchetto di interventi mirati a far fronte alle difficoltà delle strutture di Pronto Soccorso; nel governo del fenomeno delle esternalizzazioni dei servizi sanitari; nella velocizzazione e semplificazione delle procedure per il riconoscimento dei titoli esteri da parte del Ministero della Salute; nel rendere strutturale la possibilità di assumere  specializzandi dal terzo anno, terminato il 31/12/2023 e, da ultimo, nel velocizzare e semplificare le procedure di assunzione attraverso la revisione dei regolamenti concorsuali (DPR 483/1997 e 220/2001).

Com’è di tutta evidenza, idee e strumenti per intervenire sul nodo centrale del personale sanitario non mancano. Mancano solo un paio di cose di una qualche importanza: la volontà e la capacità di attuarle. Che non pare proprio questo governo stia dimostrando di avere. Né l’una, né l’altra.

Corrado Bedogni

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