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Quel difficile (se non impossibile) cammino della riforma della Giustizia in Italia

CUNEO

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PIERCARLO BARALE - Pare che la maggior parte dei nostri parlamentari applichi il detto romano unusquisque arbiter fortunae suae - ciascuno è arbitro della propria fortuna - coniugandolo con un altro detto, fortuna favet audaces - la fortuna è con i coraggiosi -. Dimenticano di non trovarsi in Parlamento per questo scopo, ma per l’esatto contrario. Per l’esclusivo interesse dello Stato e della collettività nazionale. Anche dei propri elettori e del partito che li ha indicati per la carica pubblica, ove il cercare la propria fortuna con audacia non confligga con l’interesse del Paese. Se ci fosse contrasto tra l’interesse del partito rappresentato e quello generale, quest’ultimo dovrebbe prevalere. Se poi il capo partito pretendesse fedeltà a prescindere, quale riconoscenza per l’indicazione e la conseguente elezione, occorrerebbe tenerlo garbatamente a bada. Anche a rischio della non rielezione.

Spesso sono i capi partito - per fortuna non tutti - a pretendere un ritorno, anche in termini economici o di collocamento di persone o di decisioni da assumere negli organi collegiali, fino al consiglio superiore della magistratura. Del quale, a garanzia di democraticità delle decisioni e di rappresentanza, fanno parte membri laici di designazione partitica. Li si designa per vicinanza al partito. Si formano così, anche nell’organo supremo di controllo dell’attività giurisdizionale, commistioni tra politica e magistratura. Sono sfociate con l’affare Palamara e Lotti pochi giorni or sono. Hanno consolidato, in parecchi cittadini, sfiducia nelle toghe quasi alla pari dei politici.

Il consiglio superiore della magistratura dev’essere riformato, affinché le nomine agli uffici direttivi, i trasferimenti e le sanzioni siano il frutto di valutazioni di merito e di capacità e non conseguenza di indegne camarille. Si sono verificati abbracci sempre negativi e fuorvianti tra due poteri dello Stato. Per porvi rimedio, sta facendo del suo meglio la ministra Cartabia, valente giurista estranea alla politica, non in debito con alcuno. È stata chiamata da Draghi e nominata da Mattarella per la competenza e la capacità dimostrate nel presiedere la Corte costituzionale. Pur impegnandosi, troverà davanti a sé un muro di gomma, composto da parlamentari, molti dei quali con la giustizia hanno da risolvere situazioni non di poco conto. La gomma sarà ancora più dura nelle modifiche alla giustizia penale.

Salvini e Berlusconi non hanno avuto difficoltà nel concordare una coalizione al fine di meglio difendersi dalla giustizia. È delle ultime ore la notizia che l’ipotesi federativa Salvini-Berlusconi sia abortita, per le proteste suscitate nella base ed anche nelle ministre di Forza Italia. I due promotori, che aspiravano a Palazzo Chigi ed al Quirinale, si sono risvegliati con la bocca amara. Pare infatti che i berlusconiani rimasti dopo le varie diaspore, non abbiano gradito l’ipotesi federativa. Già all’inizio dell’avventura politica, con l’ipotesi Previti ministro, aveva sognato una giustizia domestica, come quella che statuti ed editti medievali assicuravano al Signore, che li aveva fatti redigere.

Il legibus solutus (esente dalle leggi) funziona solo nelle dittature. È da notare che nella metà del mondo, dittatori e cerchi magici sono tra gli esonerati, mentre tutti gli altri non se la passano bene, come sta avvenendo in Egitto al povero Zaki. Con Previti - suo avvocato - ministro della giustizia, rifiutato però da Napolitano, avrebbe sperato cambiamenti verso il traguardo dell’impunità. Alcuni dei padri costituenti avevano provato, sulla loro pelle, la giustizia mussoliniana, racchiusa nel codice Rocco. Per evitare ricadute fasciste, si scrisse in Costituzione che venisse ritenuto colpevole solo il condannato che avesse esaurito ogni grado di giudizio. Erano e sono tre, con l’ulteriore possibile ricorso alla Corte europea dei diritti, che però non incide direttamente sulla sentenza definitiva. Lo Stato, alla luce della pronuncia, potrebbe riformarla.

Con l’introduzione nel nostro sistema penale del processo accusatorio, all’americana, la situazione è radicalmente cambiata. Le prove non sono più raccolte dal giudice istruttore, ma nel giudizio, avanti un giudice terzo, che nulla abbia avuto a che fare con la precedente fase preparatoria. Accusa e difesa si trovano nella stessa posizione, con l’eventuale parte civile, che tutela la persona offesa dal reato. Non si è avuto il coraggio - troppi parlamentari inquisiti e con processi in corso, spesso in fiduciosa attesa della quasi certa prescrizione del reato - di modificare l’assunto costituzionale. Come avviene nei paesi anglosassoni, la sentenza di primo grado dovrebbe essere dichiarata esecutiva.

Si dovrebbe invertire il principio costituzionale della non colpevolezza fino all’ultimo grado di giudizio. Dovrebbe essere ritenuto presunto colpevole il condannato nel giudizio di primo grado. Tale riforma però non troverebbe sostenitori. Con il principio attuale della non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio e la prescrizione a sfoltire i processi, chi ha soldi per assicurarsi buoni avvocati vedrà la condanna svanire con l’accertamento dell’intervenuta prescrizione. Le persone oneste ed innocenti dovrebbero rinunciarvi, chiedendo l’accertamento giudiziale della loro innocenza. Quasi nessuno lo fa. Per difendersi, sostengono che non si possono fidare della giustizia. Proprio quella di cui si sono fatti beffe. 

Piercarlo Barale

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