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Per Piccinelli le colline di Langa splendevano al buio

ALBA

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TERESIO ASOLA - Alla vigilia della ricorrenza della Liberazione del '79, il «Telegiornale» riferì dell'attentato delle Brigate Rosse a Franco Piccinelli.

Giornalista di carta e video e direttore della redazione giornalistica Rai di Torino, cugino alla lontana per parte paterna, Piccinelli era rimasto ferito nell'androne di casa, vittima di sei pallottole vigliacche alle gambe. 

Gambizzato, era il termine che avevamo dovuto imparare due anni prima già per Indro Montanelli, Emilio Rossi e Vittorio Bruno, prima che il terrore alzasse la mira su Carlo Casalegno e Walter Tobagi, uccidendoli.

Il giorno dopo, 25 aprile 1979, papà m'indicò il titolo dell’articolo che riferiva della gambizzazione di Franco («Torino: ferito con sei colpi di pistola nel cortile della sua abitazione»).

Poi mi mostrò una foto di famiglia degli anni ‘30: tutti schierati nell’aia della casa rurale neivese, Franco bambino in camicina bianca appoggiato, in piedi, al grembo di sua mamma, seduta, il fratello Ernesto seduto a terra con mio papà e i miei zii, e – dietro – nonni, bisnonni, e il fotografo con occhiali tondi alla Piero Gobetti e coevi pantaloni alla zuava. Un'apoteosi della dimensione paesana e familiare, a Franco particolarmente congeniale. Conservo la foto fra i ricordi più preziosi.

Franco era cugino (sua mamma Delina era cugina prima di mia nonna Pierina), ma ci s’incontrava di rado: siamo gente selvatica (parlo per noi di parte albese). E poi, ci si può voler bene anche vedendosi poco.

L’attentato mi scosse per le modalità (sotto casa, luogo sacro, inviolabile) più che per la contiguità parentale. Per me che abitavo lontano da Roma, Franco era soprattutto il mezzobusto di «Oggi al Parlamento» i cui interventi venivano commentati con ammirazione da mamma e papà.

E poi, faceva un mestiere che gli invidiavo. (Più quello dello scrittore che del giornalista, a dire il vero.) Soprattutto, mi era incomprensibile come a qualcuno fosse saltato in mente di colpire un onesto narratore della civiltà contadina che persino scriveva poesie.

Prima dell’attentato l’avevo incontrato poche volte; alla presentazione di Suonerà una scelta orchestra nel ‘74 papà mi introdusse alla mamma di Franco, la maestrina minuta che insegnava nella classe delle bambine quando egli frequentava le elementari a Neive. Radi gli incontri, ma ogni volta capivo che c’era un legame, fra mio padre e lui. E fra lui e me, avendolo io conosciuto attraverso i suoi primi libri.

Avevo letto Bella non piangere e Paura a mezzogiorno. Di recente poi, giusto all’inizio di quel ’79 maledetto, mi ero fatto regalare da nonna Pierina anche Le colline splendono al buio, non più disponibile in libreria ma in bella vista su uno scaffale di casa sua in via dei Mille: un volume stropicciato, digerito, sminuzzato, metabolizzato dalle tante letture, prima ancora di passare nelle mie mani, la copertina tenuta insieme da una generosa striscia di nastro adesivo trasparente sul dorso.

Le pagine di Franco, assieme a quelle di Fenoglio e Pavese, seppero introdurre noi langhetti di città a un universo contadino scandito dal ruotare delle stagioni, per me distante a dispetto dei pochi chilometri che separavano Alba dalla Neive paterna e dalle Langhe ancestrali.

Non lo conoscevo bene di persona, Franco, ma le letture me l’avevano reso più prossimo di quanto avrebbe potuto il solo (blando) legame di sangue. Un amico, per il quale le colline splendevano al buio.

Teresio Asola

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