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Pagine di guerra: la Pasqua del '43 in Tunisia sotto i colpi di cannone

ALBA

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TERESIO ASOLA - «No!» mi sorprendo a urlare a pieni polmoni, il monosillabo soffocato dal frastuono degli spari, e cado a terra, istintivamente, come se io fossi là con i miei compagni e con loro colpito dalla cannonata, o come se volessi cercare riparo dal colpo che ha centrato il mio cannone e i miei amici.

Tutti colpiti. Al primo, e unico, colpo sparato. Una sola, chirurgica cannonata. Non ho il tempo di versare una lacrima. Mi rialzo, corro ancora. Vado lontano nonostante la ferita, e mi caccio ancora in un cratere, in attesa che quei bestioni si dileguino.

Il cuore piange amaro per i miei amici, gli occhi no. Quelli, bagnati di sudore pungente, sono asciutti di lacrime, forse asciugate dal sole e dal soffio del khamsin. Mi siedo in fondo alla buca, poso il Lee-Enfield a terra, prendo il fazzoletto dalla tasca e me lo lego sopra la ferita, all’altezza del polpaccio.

Me n’ero dimenticato, di quella ferita. Improvvisamente ricordo che quel giorno è la domenica di Pasqua. Provo a recitare un Padre Nostro, non mi vengono le parole come prima con l’Angelo Custode, tanto grandi l’eccitazione, la pena, il dolore, la tensione alla sopravvivenza. Arrivo al «liberaci dal male» dopo almeno quattro tentativi di penosa, claudicante giaculatoria.

Un solo colpo, perentorio, è stato sufficiente al carro armato britannico per cogliere in pieno il cannone e i miei compagni.  Come un solo colpo mi è bastato per il mio cammello in Libia. Il paragone lo penso molto calzante perché le proporzioni sono quelle: il mio cannone anticarro centrato come il cammello del beduino, e il tank inglese come il mio «elefantino» che a Gioda ha abbattuto l’ignaro ipertricotico artiodattilo ruminante.

Quando tutto sembra finito, rispallo lo zaino, riprendo il fucile e esco dal mio rifugio, vado al mio cannone sventrato con passo rallentato per la ferita che mi pulsa nella gamba non più anestetizzata dall’affanno e mi rendo conto, se ce ne fosse bisogno, che cosa significa un conflitto a fuoco impari.

I morti, ridotti da non descriversi; uno dei quattro ragazzi, il più grande, più alto di me che pur non sono piccolo, si alza barcollando, viene verso di me trascinando il passo, dice solo che non si sente bene e stramazza al suolo. Non ha un solo segno visibile di ferita. Non capisco se in me siano più intensi la rabbia e il desiderio di vendicare i compagni ammazzati, oppure lo scoramento, la sfiducia, il sospetto di essere stati dimenticati in questo posto spaventoso, nei cui cieli primaverili da tempo non vediamo più volare più aerei italiani ma soltanto quelli nemici che spazzano le nostre linee con bombardamenti e mitragliate a tappeto.

Dei miei compagni di pezzo, due sono morti all’istante, tre, feriti gravemente, se ne vanno prima di sera. La mia squadra è azzerata. Constato, anzi ho conferma che io solo sopravvivo, nel giorno della Risurrezione. Mi domando se ho colpe. Scaccio il pensiero assieme a una mosca che insiste a ronzare giusto sopra la mia ferita.

Quel giorno di Pasqua del 1943, la mia Compagnia perde sessantacinque uomini, di cui sessanta in combattimento, mentre cinque di noi che al momento dell’attacco si sono trovati in posizione troppo avanzata per ritirarsi, vengono catturati. Rimaniamo in settanta, dei duecento iniziali.

Teresio Asola

(Foto tratta dal portale di Wikipedia, all'indirizzo https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_del_passo_di_Kasserine#/media/File:Bundesarchiv_Bild_101I-788-0017-20,_Nordafrika,_Panzer_IV.jpg)

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