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Alessandra infermiera all’ospedale Covid di Verduno: tra lontananza dai figli e sofferenza dei pazienti

BRA

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FIORELLA AVALLE NEMOLIS - Mascherina e visiera non nascondono gli occhi verde mare, è inconfondibile lo sguardo penetrante, magnetico di Alessandra Camerota, infermiera all'Ospedale Covid di Verduno.

E' sposa “per sempre”, si definisce così, di Sergio Sette, anestesista rianimatore, scomparso improvvisamente 5 anni fa.

Dalla loro unione sono nati: Edoardo di 20 anni, Samuele di quasi 18 e Leonardo di 11.

Alessandra è un'amica, si apre con me, si racconta, madre sola ad allevare tre figli, forte e coraggiosa, ma altrettanto dedita alla sua professione: infermiera per vocazione.

“Sono infermiera di pronto soccorso da vent'anni: l'emergenza, l'urgenza, richiedono prontezza, responsabilità, sì, ma ripagano nel rendersi utili in momenti tragici dei pazienti e anche dei loro parenti. E' stato un duro colpo quando a marzo di quest'anno, senza alcun preavviso, sono stata trasferita dall'ospedale Santo Spirito di Bra, all'ospedale covid di Verduno.”

“Cosa è balenato nella tua mente?” “Già il lavoro in reparto non era per me, ma immagina la paura di gestire pazienti positivi al covid, nel pieno centro della pandemia. Paura per i miei figli, per i miei genitori anziani: se mi accadesse qualcosa, e non solo, la grande preoccupazione, il pericolo di contagiarli.

La decisione molto sofferta, mi ha portato a trasferirmi nell'hotel generosamente messo a nostra disposizione dalla Fondazione Ferrero.

Mi è sembrato quasi crudele abbandonare i miei cari, soprattutto Leo, col quale ho un legame profondo perchè è il piccolo di casa.”

“Come hai superato lo sconforto, la disperazione?”

“Pianti per giorni e giorni, sensi di colpa per l'abbandono, e soprattutto l'angoscia nel percepire che i miei figli temevano più per me che per loro stessi!

Dopo la perdita del papà si aggiungeva la paura di perdere anche me...

E poi ho reagito: grazie anche alle colleghe molto accoglienti, ho affrontato un nuovo metodo di lavoro, e mi sono resa conto che ero più protetta dal contagio, grazie alla vestizione lunga e meticolosa prima di entrare in reparto.

Ma ciò che ci protegge ci segna fisicamente: mani tumefatte da due paia di guanti, viso segnato da solchi ormai indelebili per la pressione della mascherina.

Muoversi con difficoltà, come automi, volto privo di espressioni. Così gli occhi, anche se filtrati da visiere, sono diventati i protagonisti della comunicazione.

Si impara a leggere le emozioni dei pazienti: occhi pieni di lacrime, di dolore, che cercano attorno il letto i loro cari, per un pò di conforto.

Come loro sanno leggere nei nostri, quel senso di angosciosa impotenza, mentre inghiottiamo le lacrime, e accarezziamo loro le mani, anche se non possono sentire il calore della nostra pelle ricoperta dai guanti.

E che per farci riconoscere, sulle goffe tute che ci nascondono, scriviamo i nostri nomi e disegnamo i nostri sorrisi, quelli che non possono vedere.”

“Un episodio che ti ha toccato in particolare?”

“Il primo paziente morire con quello sguardo disperato, in preda all'abbandono, in cerca dei suoi cari, con accanto una sconosciuta infagottata nella tuta che lo stava accompagnando verso il buio, tenendogli la mano. Ti risparmio i particolari strazianti.

Mentre un episodio a me caro, avere dato conforto ad un ragazzo con gravi problemi psicologici, solo e spaventato in questo ambiente sconosciuto, surreale, senza la vicinanza del padre che l'aveva accudito fin dalla nascita. Si è creato tra noi un legame, manterrò la promessa, appena possibile, di andare a trovarlo dove ora si trova in convalescenza.”

“Cosa lenisce un po' la tua solitudine?” “La presenza di un bel gatto dell'albergo, che quando rientro la sera, mi è sempre vicino con le sue fusa, mi consola e ormai non mi abbandona più.

Mi piace pensare sia un segno mandato da Sergio, per farmi sentire la sua vicinanza. Sono certa che avrebbe condiviso la mia scelta di allontanarmi per prudenza dai nostri figli. Averlo accanto in questa emergenza sarebbe stato di grande sollievo, anche se sono certa che in qualità di anestesista rianimatore, si sarebbe speso senza risparmiarsi. Mi manca tanto il suo abbraccio, il suo bacio e le sue battute spiritose per farmi sorridere.”

“Un commento su questa fase 2, la riapertura?” È giusto che la vita ricominci, per tutti, soprattutto per chi ha attività e sta soffrendo.

Non vorrei che questa riapertura fosse considerata come una sconfitta del covid, non è così.

Sarà piu' facile sconfiggerlo solo se tutti ci impegneremo per prevenire il contagio: mascherina, distanziamento sociale e lavarsi le mani spesso. Anche per me è un sacrificio non manifestare l'affetto con un abbraccio, un bacio, parenti, e amici.

Se tutti rispettassimo queste regole, forse potremmo riprendere una vita normale anche noi operatori sanitari, stremati in questa emergenza, sia psicologicamente, che fisicamente. Alla fine dei turni ci sfiliamo le tute fradice come fossimo appena usciti dalla doccia.

Se così non sarà, allora, per lungo tempo noi saremo destinati a fare questo sacrificio, a cui non vogliamo sottrarci, fa parte del nostro lavoro, scelto e svolto con amore e passione, però, non vorremmo diventare martiri per i comportamenti sciagurati di altre persone, che ancora negano l'esistenza di questo virus. Purtroppo ho sentito anche questo.”

Non c'è nulla da aggiungere alle parole di Alessandra, prive di vittimismo, anzi, schiette e amorevoli, che ci mettono in guardia sulla riapertura: prudenza e buon senso. Per il bene di tutti.

Fiorella Avalle Nemolis

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