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I ricordi del giorno di Pasqua vissuto da una bambina golosa a Cuneo

CUNEO

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FIORELLA AVALLE NEMOLIS - Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Nella famiglia Nemolis si rispettava il detto: Natale riunione con il parentado. Quello con ricorrenza annuale. E poi, chi s'è visto s'è visto.

E Pasqua con chi volevamo? Con noi. Mamma Gina, babbo Mario, mia sorella Giuliana e io, la pecora nera. Giuliana era l'agnellino. Ci bastavamo. Eravamo così. Un po' orsetti. Babbo riservato. A mamma andava bene così. Non rivendicava socializzazione, compagnia di amici. Contagiata da Mario, ormai affetta dal virus dell'orsaggine e anche perché, tutto sommato, ospitare comportava confusione. Ma, sopratutto, mettere la casa in disordine.

La sua ossessione era il pavimento. Si chinava sempre, anzi si inclinava con sguardo indagatore a sorprendere in contro luce le patacche. Sopratutto quelle in cucina. La goccia era la sua peggiore nemica. E anche la nostra. Di conseguenza. Perché la goccia, la malefica, posandosi sul pavimento di ceramica, ahimè impolverato, perché qualche granello c'era, creava una reazione chimica micidiale: la patacca. E una volta asciutta, difficile pulirla.

La peggiore patacca, quella più temuta dalla famiglia, era quella d'olio. Non per il rischio di scivolare, cadere, farsi male. Macché: perché generava l'unto. La nostra cucina, vista come fucina dell'unto, in quanto a pulizia faceva invidia a una sala operatoria. I germi, gli acari, erano stroncati alla nascita. Niente riproduzione. Anzi, fuori della porta di casa c'era uno strano segno indelebile vicino al campanello: la sagoma di una vaschetta con la manina che si immerge. Uguale a quelle sulle etichette dei vestiti che ne indicano il lavaggio. Insomma indicava pericolo: acqua e detersivi. E sopratutto contaminazione di candeggina. Gli acari segnalavano le case con pulizia invasiva. La nostra era la prima in classifica. Nessuno poteva farla “Franca”, e neppure “Giovanna”, con la sterminatrice numero uno: Gina Nemolis.

Insomma, si festeggiava felici a Cuneo. Noi quattro. Un pranzetto neanche così tradizionale. Parola senza significato per me. C'era una gran confusione tra le tradizioni toscane, e quelle piemontesi. Succede con babbo originario dell'Elba e con mamma di Savigliano. Sicché, anche la tradizione alimentare era anomala.

Per non fare torto alle due regioni, si mangiava diverso: in prevalenza verdura e frutta. C'era sempre la bacinella nel lavandino con la verdura a bagno. Sopratutto l'insalata. A quella primaverile, foglioline leggere, delicata, profumata ancora di orto, con tanta terra, non giovava una prolungata immersione nell'acqua. Ma guai a sentire un granellino di terra sotto i denti. Aboliti gli intingoli, le carni con cottura prolungata. La griglia, quella malefica con le onde e il manico ripiegabile in acciaio, difficilissima da disincrostare, era la regina delle pentole.

Primeggiava la bistecca alla griglia. Quella tutta a righe. Che, con quell'odore acre e pungente, già dall'atrio del palazzo, preannunciava il monotono menù. A me, ogni tanto, concedevano la bistecca al sangue. Il mio sogno proibito era una ghiotta milanese con contorno di patatine fritte in un lago di olio. Amatissima milanese: bella dorata, croccante. Impanata perfetta. Prima infarinata, poi passata nell'uovo sbattuto con la forchetta e infine adagiata e ben pressata sul pangrattato. Ero io l'addetta alla produzione di pane secco con grattugia, che tanto non consumavamo. Mai. Altrimenti, che farne del pane avanzato? Darlo ai cani. Ma non avevamo cani. Lasciavano troppo pelo. Sporcavano. Abbaiavano. Certo, erano cani. Banditi gli animali domestici. Mi sognavo un bel cagnolino, o anche un micino. Insomma, mi toccava grattugiare anche il pane. Anche se non serviva. Provai a grattugiare anche un po' le dita per fare compassione. Mostravo le ferite di guerra ai grandi.

La risposta era: “Colpa tua. Sei la solita disattenta.” Così mi rassegnai. E il formaggio grana? Pure quello mi toccava. Odiavo la formaggiera. Vietata una produzione industriale. Ogni giorno la grattugiata fresca. E ogni giorno, doccia alla formaggiera. Linda. Brillante il contenitore in vetro, e sgrassato con l'aceto, il coperchio in acciaio.

Noi, si consumava più aceto per la pulizia che per condire l'insalata.
Dimenticavo il macinino del caffè a mano. E Cracra, cracra, cra. Faticosi, estenuanti i primi giri con i chicchi interi. Unica consolazione, l'impagabile aroma del caffè macinato a mano.

Poi, negli anni sessanta, con l'invasione degli elettrodomestici, arrivò il salvifico macinino elettrico. Ma il pericolo numero uno era il coperchio. Se, io, la disattenta, la sciagurata di casa, non lo avvitavo bene, i chicchi di caffè partivano a raffica. Insomma, per me il lavori domestici erano un castigo.

Per fortuna mi tenevano lontana dalle pentole. Avrei potuto versare l'acqua nel tragitto dal rubinetto al fornello e produrre le vituperate gocce sul pavimento. Anche se dinnanzi al lavello c'era il malefico tappetino salva goccia, riuscivo a inciampare, scivolare, per la troppa cera sul pavimento e versare l'acqua acqua.
Per le padelle, ancora peggio se il fuoco era troppo alto, chi puliva gli schizzi di unto? Tragedia. Meglio evitare.

Tornando al pranzo di Pasqua un antipasto di salumi affettati, tranne il più ghiotto: il salame crudo. Si diceva in casa che babbo Mario soffrisse di male al fegato.

Quindi tutti i grassi banditi dalla nostra tavola. Mamma Gina, non discuteva. Meno grassi, meno unto da pulire. Un risotto ai funghi. Una vera delizia. E niente formaggio grattugiato. Condivido la scelta: un sapore aggiunto che copre quello dei funghi. Abbondanti.

A seguire un coniglio strepitoso. Senza intingoli. Solo rosolato. Appena qualche aroma. Crosticina di pelle dorata, su polpa di carne rosata. Più che tenera. E molto saporita. Mi spiaceva un po' per il coniglio. Mi riservavano un pezzo tutto tondo, non mi sono mai informata di che parte del corpicino fosse. Mi faceva impressione. E poi, la coscietta. Quella la distinguevo. Mi sentivo in colpa al pensiero di Bunny, il coniglietto con la carota in bocca, che correva a balzi sul prato. Con le orecchie lunghe lunghe che sventolavano dietro al capo.

Ma, poi pensavo che fosse un coniglio anziano. Morto d'infarto. E mi avventavo su quel cadaverino, facendo attenzione agli ossicini. Il contorno era, solo per l'occasione, patatine fritte, così fritte che non credevo ai miei occhi. Per convincermi che fosse vero, cercavo la prova nella padella. Tutto vero. C'era abbondante olio che galleggiava. Mamma quei gioielli croccanti fuori e tenerissimi dentro, li adagiava su un piatto da portata con la carta da pane. Assorbiva l'unto.

Già il disdicevole unto. E i cuori di carciofo, impanati e fritti. Insomma, per una volta si pasteggiava in modo gustoso, saporito. Non mi importava in quel caso la tradizione. Che fosse toscana, piemontese, internazionale. Era la tradizione pasquale della nostra famiglia.

La macedonia di frutta colorata, affettata con precisione da mamma. Penso misurasse i frutti, tanto era precisa nel taglio. Un arcobaleno di frutta fresca. Una gioia alla vista. Condita solo con zucchero e limone.
E, per una volta, la panna era concessa. Sempre per non rispettare la tradizione, al posto della colomba, come dessert, fantastiche meringhe, chiudevano l'abbondante pasto.

Il fegato di babbo a Pasqua si faceva un giro. Ed io aprivo quelle due gigantesche semisfere croccanti, lentigginose, puntinate di piccoli frammenti, ma grossolani, di nocciola. E la pasta franava abbondante dalla bocca, per ricadere in grembo. Perché mentre assaporavo, il palato faceva così festa, che dal piacere mi girava la testa. Perdevo il senso dell'equilibrio. Scivolavo indietro sulla sedia. Una metà la separavo subito dalla panna, con il cucchiaino me la gustavo. Sarebbe stato meglio con meno eleganti leccate. Al diavolo il galateo. E poi, mi dedicavo a spazzolare tutta la panna sulla metà restante, con qualche furtiva leccata. Infine, mi dedicavo alla seconda parte franosa, rovinosa di briciole. Pena da scontare, neanche così, grave, scuotere bene il tovagliolo sulla tovaglia, pulire la sedia, e raccogliere le briciole cadute sul pavimento, per evitare future patacche.

Buona Pasqua a tutti! Ognuno con le proprie tradizioni, ognuno con chi vuole, purché sia la Pasqua che piaccia a voi!

Fiorella Nemolis

 

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