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Politici che non si accorgono del disagio sociale che cresce in mezzo a noi

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ANDREA PORRO - All’inizio del 2017 l’Italia sembra un Paese sull’orlo di una crisi di nervi, appesantito da leadership appannate e da una grave assenza di progetti istituzionali, politici, sociali, rivolto esclusivamente a sopperire ai disastri della natura - spesso causati o aggravati dalla negligenza o dall’incuria degli uomini -.

Dalla crisi istituzionale post-referendum, pur risolta rapidamente con la formazione del governo Gentiloni, alla persistente crisi del sistema bancario - causato dai grandi investitori e speculatori, ai danni dei piccoli risparmiatori -, dalle difficoltà (o meglio, incapacità) di gestione dei flussi immigratori alle ricorrenti minacce terroristiche, tutto sembra spingere il Paese verso la preoccupazione e l’incertezza per il il futuro.

Sotto un profilo di natura politico-istituzionale, per oltre tre anni, dalle elezioni del 2013, il sistema politico italiano ha ritenuto di potersi riorganizzare intorno ad un progetto di rinnovamento istituzionale, anche fondato su un’articolata riforma costituzionale presentata in Parlamento nel 2014.

Il referendum popolare del 2016, imposto dal mancato raggiungimento della maggioranza dei due terzi prescritta dall’art. 138 della Costituzione, è stato ampiamente negativo, con quasi il 60% di voti contrari al progetto di riforma costituzionale approvato dal Parlamento.

Nella gestione di una lunghissima fase di scontro culturale (con i lavori della Commissione degli Esperti), politico (con il dibattito parlamentare) e referendario (con la campagna per le votazioni), vi sono stati indubbiamente numerosi errori politici ed istituzionali in merito.

La sottoposizione al voto referendario di questioni separate (riforma del Senato, procedimento legislativo, riforma dei rapporti Stato-Regioni, abolizione delle Province e del CNEL, ...) avrebbe impedito la drastica contrapposizione e personalizzazione dei fronti del SI e del NO, con risultati probabilmente differenti.

Attualmente, anziché immaginare nuove proposte di riforma costituzionale in uno scorcio di legislatura - destinata in ogni caso a non superare i primi mesi del 2018 -, occorrerebbe più speditamente programmare le prossime elezioni politiche, indipendentemente dalla preoccupazione - dei soli parlamentari - di poter maturare il diritto alla pensione..

Nei prossimi mesi, quindi, il Paese sarà costretto a scegliere tra un voto a giugno 2017 - applicando la legge elettorale eventualmente riformata dalla Corte Costituzionale - e la continuazione della legislatura sino al febbraio 2018 - alla improbabile ricerca di una legge elettorale soddisfacente per tutti -.

Appare molto probabile che si andrà a votare con le leggi elettorali “disegnate” dalla Corte Costituzionale nella sentenza del 2014 per il Senato della Repubblica (sostanzialmente proporzionale) e nella emananda sentenza del 2016 per la Camera dei Deputati (potenzialmente maggioritaria).

Solo all’esito delle elezioni politiche, forse e comunque con grande difficoltà, si potrà riprendere - dall’inizio - il percorso delle riforme costituzionali, anche se sarà chiaramente cruciale capire quale sarà la maggioranza uscente dalle elezioni - previsione ad oggi non immaginata, nè immaginabile, e comunque azzardata -.

Sotto un profilo di natura economica e sociale, il referendum costituzionale del dicembre 2016 ha dimostrato l’esistenza di una significativa fascia di disagio sociale, confermato dai dati sulla disoccupazione - giovanile e non -, sulla denatalità e sul cosiddetto analfabetismo di ritorno.

Per porvi rimedio, servirebbero politiche di eguaglianza e di riduzione delle distanze sociali, con conseguente necessità di redistribuzione della ricchezza - che, però, occorre produrre -, non potendosi affidare solo al progressivo indebitamento pubblico, ossia al c.d. Stato-provvidenza.

La tassazione elevatissima, i servizi pubblici scadenti, la burocrazia inefficiente, la sensazione diffusa di insicurezza sociale minano la capacità di crescita del Paese, facendo così prevalere nei settori sociali più emarginati la rabbia e la disperazione, in altri la rassegnazione e l’impotenza.

Il Paese, però, non ha bisogno di frustrazione, bensì di un progetto semplice ed invocato ormai da decenni, comportante la semplificazione legislativa, la certezza dell’azione amministrativa, il contenimento della spesa pubblica, la riduzione della tassazione ed una politica di sicurezza e di ordine pubblico.

L’attuale situazione di crisi - non solo congiunturale, ma permanente - non consente più politiche socio-economiche di corto respiro, ossia politiche ispirate all’“arte del non governo”, ma richiede - imprescindibilmente ed urgentemente -l’individuazione di soggetti politici preparati, onesti ed interessati alla res publica.

Andrea Porro

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