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Roma né condannata né assolta: aspettiamo la Cassazione

CUNEO

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PIERCARLO BARALE - Il processo di Roma finirà in Cassazione, come tutti sapevano fin dall'inizio. L'approvazione delle misure cautelari in carcere - duro - per quelli che erano considerati la cupola, da parte della Suprema Corte, aveva posto una pesante ipoteca sul risultato del processo. Invece - con non poca sorpresa da parte della pubblica accusa, i giudici del Tribunale di Roma - forse solo due su tre hanno negato la sussistenza del reato associativo con l'aggravante mafiosa.

Dal momento che la Cassazione, con tre pronunce, ha qualificato i fatti di Roma e di Ostia come espressione dell'esistenza di criminalità associativa mafiosa nel termine generico, non ha convinto i giudici di primo grado. E' stata ritenuta in atto una associazione criminale semplice, anche se posta in atto da esponenti di notevole spessore, con curricula impressionanti ed il coinvolgimento dei funzionari del comune di Roma. Le pene irrogate sono state assai severe, anche oltre quanto richiesto, in qualche caso, dalla pubblica accusa.

Mancando però la qualifica della "mafiosità", non si potrà applicare la carcerazione "dura", con la conseguenza di un percorso riabilitativo comprensivo dei benefici di legge, contatti con familiari e permanenza in carceri più vicine a Roma. In base alla Legislazione premiale, vent'anni possono diventare dieci, per la possibilità di ottenere permessi, lavoro esterno, semilibertà, anticipata liberazione con arresti domiciliari. Tutto ciò, in caso del carcere duro, appare un miraggio.

Esultano i difensori, sia per la vittoria sulla insussistenza della associazione mafiosa stabilita in sentenza, sia per gli immediati benefici dei difesi sotto il profilo del percorso carcerario che li attende. Stupisce l'esultanza di qualche parte politica, dalla quale la ritenuta - per ora - assenza della mafia a Roma, viene celebrata come la riabilitazione della città, il riacquisto della dignità offesa.

Il processo proseguirà con l'appello, già annunciato dalla Procura. Ci sarà un secondo grado di giudizio avanti la Corte d'Appello di Roma, che potrà confermare o modificare la sentenza di I grado. Se riconoscerà l'associazione mafiosa, anche senza aumentare le pene o riducendole motivatamente, così allineandosi a quanto già espresso dalla Cassazione nel corso del giudizio cautelare, la detenzione ritornerà quella - dura - fin'ora patita e così sarà fino al terzo grado di giudizio.

Certamente, qualunque decisione assumerà la Corte d'Appello di Roma, vi sarà il ricorso in Cassazione. O da parte dei difensori o della pubblica accusa, e così - fra qualche anno, forse pochi - la decisione definitiva. Non si comprende l'esultanza per la sentenza del Tribunale. Come se fosse quella definitiva e per il solo fatto che, in dissenso con quanto già deciso dalla Cassazione sulla detenzione cautelare, l'aggravante mafiosa è stata disattesa.

La Procura romana ha elegantemente incassato la bocciatura della linea seguita sotto tale profilo, anche se ha visto irrogare pena gravissime. La spiegazione di tanta severità non solo nei confronti della cupola, ma dei pubblici funzionari corrotti, deriva dalla pluralità e gravità dei reati accertati, quasi tutti documentali e dalla violazione dei doveri di lealtà e correttezza dei pubblici dipendenti. La Cassazione, quando si era pronunciata sulle misure cautelari, era a conoscenza della situazione documentale portata alla sua valutazione dalla Procura di Roma. Lo sviluppo dibattimentale poco ha aggiunto a quanto già in atti.

Pertanto, sembra stonata la fretta con la quale le difese hanno esultato - pur con i clienti pesantemente condannati ed in carcere - per il solo fatto del mancato riconoscimento - per ora - della aggravante mafiosa. Altresì, pare stonato il concerto di felicitazioni per la mancata qualifica di mafiosa alla capitale. Succedeva così anche nelle grandi città del Nord, allorquando, pur di fronte a ripetute condanne per estorsioni, minacce, lesioni ed omicidi, si continuava a ripetere che erano solo fatti delinquenziali comuni.

Si trattava - dicevano - di criminalità comune, non certo di mafia, dal momento che le varie mafie erano allocate al Sud. Così era, fino all'uccisione del Generale Dalla Chiesa, anche in Sicilia, quando molti politici lo sostenevano, ma negavano la sua esistenza. Che a Roma vi siano associazioni mafiose è noto dal 1991 e via via sono stati frequenti gli accostamenti sul fenomeno, prima fermamente negato e poi, da esponenti di qualche partito, utilizzato a proprio vantaggio elettorale prima e corruttivo poi.

Quando si giocano le semifinali di coppa dei campioni di calcio, non si esulta eccessivamente se si vince la partita di andata. Solo l'esito di quella di ritorno indica chi è il vincitore. Nel processo Mafia Capitale sarà solo la Cassazione a stabilire - con sentenza definitiva - se per gli episodi accertati ed i comportamenti delle persone accusate - presunte e non colpevoli - si è trattato di associazione mafiosa.

Piercarlo Barale

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